Danzare è celebrare l’armonia. Sempre. Anche quando la danza è scomposta, dissonante, destrutturata, mette in comunicazione l’individuo con ciò che lo trascende: Dio, la natura, la comunità. Perchè la danza funziona da “catalizzatore di energia”, crea un’”addensamento” (vortice, tensione, secondo il significato etimologico riconducibile alla radice sanscrita “tan”), in cui individuo e cosmo vibrano all’unisono, riproducendo la strutturale dinamica di aggregazione/disgregazione che sottende ogni fenomeno.
Danzare è celebrare la bellezza, laddove per bellezza non si intende soltanto la proporzione misurata dell’”apollineo” ma anche la sfrenatezza inquietante del “dionisiaco”, che assieme compongono la contraddittoria e sublime fenomenologia dell’esistenza. La danza risulta dalla sintesi di forma e caos: catturando e strutturando i moti dello spirito nella plasticità dei gesti, “dà forma al caos”, rende immediatamente leggibili e comunicabili le emozioni più variegate, dalla gioia alla disperazione, dal desiderio allo stupore, dalla gravità alla leggerezza. In ciò risiede il suo valore “terapeutico”, oltrechè artistico, che la rende un’insostituibile fattore di espressione personale e coesione sociale in ogni cultura. Sia che si tratti di danza accademica, in cui l’accento è posto sul valore estetico, sia di danza popolare, che enfatizza la funzione sociale.
Scaturendo dalla fusione di anima e corpo, la danza interpreta la perfetta circolarità di bellezza esteriore e bellezza interiore, suggestivamente raffigurata dagli antichi nell’iconografia delle Tre Grazie, sempre riprodotte nell’atto di danzare in cerchio tenendosi per mano, laddove “Aglaia è lo splendore della bellezza fisica, Eufrosine è la letizia della bellezza interiore, Talia è il frutto della pienezza che scaturisce dall’unione delle due” (Mancuso).