Le ragioni della nonviolenza

ALDO CAPITINI

Il momento storico

Il momento storico che stiamo attraversando, caratterizzato dal protrarsi, sul piano internazionale, di conflitti devastanti e dall’acuirsi, sul piano interno, di una crisi economica e sociale che rischia di travolgere gli equilibri della convivenza civile, esige un’intensificazione dell’impegno per l’affermazione della pace e della giustizia.

Il movimento per la pace, in questi ultimi anni, ha saputo mobilitarsi con energia di fronte alle emergenze (corsa al riarmo, guerra del Golfo) e promuovere con discreto successo alcune significative campagne nonviolente (obiezione di coscienza al servizio militare, obiezione fiscale alle spese per gli armamenti). Nella situazione presente, tuttavia, anche l’arcipelago pacifista manifesta segni di stanchezza: il senso di impotenza e frustrazione di fronte al conflitto jugoslavo, il disorientamento di fronte alla perdita di credibilità dei partiti cui si era affidata la rappresentanza sul piano politico delle istanze pacifiste ed ecologiste, l’incapacità di ampliare la cerchia dei militanti.

Fra i fattori che contribuiscono a determinare la crisi, va forse annoverata la mancanza di un”‘ideologia”. Il termine di “ideologia” gode di scarsa popolarità presso l’opinione pubblica contemporanea, in quanto viene associato a “dogmatismo” ed “autoritarismo”. In realtà, nella sua accezione più propria e feconda, l’ideologia va intesa come visione globale della realtà, orizzonte ideale di riferimento[1]. In tal senso, essa ha un valore irrinunciabile, un’importanza fondamentale;

Chiunque s’impegni nella realtà per promuoverne la trasformazione, ha bisogno di far riferimento a un sistema di valori e ad un ordine di fini, di appellarsi a una visione globale dell’uomo, della società, della realtà nel suo insieme. L’evoluzione del movimento nonviolento ha risentito negativamente della mancanza, o dello smarrimento, di un’ideologia specifica, di una visione ampia e profonda delle cose; tale limite ha determinato l’incapacità di elaborare una strategia di mutamento globale, la dispersione in una molteplicità di iniziative frammentarie.

Oggi, mentre la realtà circostante si fa più chiusa e la lotta per il nuovo più esigente, sentiamo più che mai il bisogno di ritrovare le “motivazioni” dell’impegno, di rifondare la prassi nonviolenta su basi solide e condivisibili. A tal fine, si rivela preziosa la conoscenza del pensiero e dell’opera dei “padri” della non violenza, di coloro, cioè, che hanno saputo assumere la nonviolenza come impegno di vita e, nello stesso tempo, renderla forza attiva di trasformazione sociale. Questo richiede un appassionato sforzo di approfondimento culturale, nella consapevolezza che la prassi, per essere adeguata ed efficace, deve trarre nutrimento dalla teoria, l’impegno dev’essere sostenuto ed orientato dalla riflessione.

Ogni grande ideologia di rinnovamento connette strettamente azione e contemplazione, politica e “spiritualità”. L’opera di Aldo Capitini si inserisce a pieno titolo in tale tradizione. In lui pensiero ed azione si identificano, costituiscono le due polarità irrinunciabili di un unico progetto, Egli non si è limitato a pensare la possibilità della liberazione, ma si è adoperato concretamente per favorirne l’avvento. Alla enunciazione delle idee, ha fatto corrispondere la più intensa applicazione pratica: uno degli aspetti più noti ed affascinanti della sua personalità è l’instancabile attività dispiegata a favore della trasformazione sociale e culturale, l’appassionata militanza pacifista e politica, l’inesauribile sforzo di mobilitazione ed “apostolato”, l’impegno profuso nell’organizzazione di iniziative, nel suscitamento di gruppi e centri.

Ma l’interesse specifico della sua posizione è dato dalla ·concezione filosofica. Capitini ha tentato di conferire alla nonviolenza la “dignità” di ideologia, l’ha elaborata come paradigma interpretativo che illumina e connette in un progetto organico ogni aspetto della realtà, investe l’individuo, la società, la natura di significati e compiti specifici. Egli ha tentato, in altri termini, di “fondare” la nonviolenza, di individuarne le “ragioni”, di evidenziarne la connessione con la struttura dell’essere, superando il livello dell’esortazione moralistica.

Non si può dire che abbia raggiunto pienamente tale scopo: data la debolezza dell’impianto teoretico, la fondazione resta “sospesa”, prospettata, ma non compiuta. Ma l’aver posto tale esigenza segna una tappa fondamentale sulla via della maturazione della coscienza nonviolenta ed indica una feconda direzione di approfondimento.

L’importanza di Capitini consiste nell’aver saputo sostanziare l’impegno politico di motivazioni forti, inquadrandolo, giustificandolo, “fondandolo” in una concezione etico-filosofica-religiosa. Egli, cioè, ha radicato l’impegno per la pace e per il rinnovamento della società in un impegno più vasto di “trasformazione della realtà”.

Ricorrente, nell’opera di Capitini, è il richiamo alla necessità di promuovere una tramutazione complessiva della realtà, che la investa nei suoi principi, nelle sue categorie, nelle sue strutture costitutive. Tale impegno di trasformazione, nel lessico capitiniano, prende il nome di “rivoluzione aperta”. Merita di essere definita “aperta” la rivoluzione orientata al cambiamento globale, che consente di trasformare il mondo in profondità, dalla radice, in quanto coinvolge l’intimo dell’individuo e le strutture economico-politiche, l’ordine sociale e l’ordine naturale, si esplica su più piani: l’interno e l’ esterno, la società e la realtà,

Il messaggio di Aldo Capitini è quindi estremamente impegnativo: non si presta a speculazioni astratte, puramente teoretiche, sollecita chi l’accosta ad impegnarsi assiduamente nel cambiamento di sé e del mondo. Lo scopo di questo saggio è proprio quello di interpretare il messaggio di Capitini secondo una prospettiva pratico-esistenziale, di evidenziare le sollecitazioni, le indicazioni, i suggerimenti derivanti da esso in ordine a un cambiamento dello stile di vita e a una “fondazione” dell’impegno nonviolento.

Si tratta di una rilettura di Capitini “ad uso del popolo della pace”, intendendo con tale espressione ogni persona a cui stia a cuore il rinnovamento dell’esistente secondo i valori della solidarietà, della pace, della giustizia e che senta il bisogno di rivolgersi all’opera di quanti hanno incarnato tali valori per attingere nuova speranza, riscoprire motivazioni, individuare orizzonti più vasti.

Aldo Capitini: un intellettuale militante

Aldo Capitini nasce a Perugia nel 1899, da famiglia di modeste condizioni (il padre era impiegato comunale). Dopo la scuola dell’obbligo, viene avviato agli studi tecnici. Durante l’adolescenza, è attratto, per un breve periodo, dal futurismo e dal nazionalismo. Ma l’esperienza della prima guerra mondiale determina in lui una vera e propria “conversione”: “dalla vita di esperienze all’ austerità, dal nazionalismo all’umanitarismo pacifista e socialista”[2].

Negli anni successivi, Capitini si dedica appassionatamente e da autodidatta allo studio della cultura classica, spinto dall’esigenza di una più robusta formazione culturale ed etica: si concentra sugli autori greci e latini, sui Vangeli, sui profeti ebrei, su Leopardi e Manzoni. Lo sforzo dello studio lo conduce ad uno stato di esaurimento fisico, che contribuisce a far maturare in lui il distacco dalla logica della ‘potenza’ e il senso di solidarietà con gli insufficienti. Nel 1924 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa e si trasferisce in questa città.

Alla Normale, attraverso il dialogo con docenti e studenti, matura la sua posizione antifascista. Nel 1929, anno della Conciliazione fra Chiesa e regime fascista, si schiera contro il Concordato, ed orienta la sua ricerca verso gli “spiriti religiosi puri”: Cristo, Buddha, S. Francesco, Mazzini. Nel 1930 è chiamato da Gentile a fare il segretario-economo della Normale e diventa assistente di Momigliano. Negli anni successivi, avvia fra gli studenti un’attività periodica di incontri e conversazioni antifascisti. A questo periodo risale la conoscenza dell’opera di Gandhi.

Nel 1933 Capitini perde il posto di segretario e viene cacciato dalla Normale, per aver rifiutato di prendere la tessera del Partito Fascista; torna ad abitare a Perugia. Fra il 1933 e il 1943 viaggia in continuazione, per fare propaganda antifascista, incontrare giovani, costituire gruppi avversi al regime. Costituisce una fitta rete di amicizie politiche e viene in contatto con molti personaggi significativi del panorama culturale dell’epoca, come Benedetto Croce, Luigi Russo, Leone Ginzburg, Elio Vittorini, Walter Binni.

Nel 1937 pubblica parte dei dattiloscritti che faceva circolare nel lavoro di collegamento, con il titolo di Elementi di un’esperienza religiosa. Tale opera delinea una posizione di “opposizione religiosa” al fascismo: più che condurre una polemica diretta, propone uno stile di vita (incentrato sui valori della non-violenza, della non-uccisione, della non-menzogna, della non-collaborazione, della religiosità libera, dell’apertura) diametralmente opposto a quello del fascismo.

Alla fine degli anni ’30 Capitini, assieme a Guido Calogero, è fra i promotori del ‘Movimento Liberalsocialista’. Fra il 1942 e il 1943 viene arrestato due volte. Trascorre l’ultimo anno di guerra nascosto in campagna, per sfuggire ai tedeschi. Risalgono a questi anni le due opere: Vita religiosa e La realtà di tutti.

Nel secondo dopoguerra Capitini, tornato a vivere a Perugia (dove eserciterà la docenza universitaria, oltre che a Pisa e a Cagliari), intensifica il suo impegno, sia politico che religioso che propriamente pacifista. Fra il 1945 e il 1948 anima, in alcuni paesi e città dell’Italia centrale, il movimento dei C.O.S. (Centri di Orientamento Sociale), straordinaria esperienza di democrazia popolare.

Contemporaneamente, si occupa del problema religioso: promuove una serie di iniziative volte a diffondere, nella società italiana, un rinnovamento della vita religiosa, ispirato a criteri di apertura, ecumenismo, anti-istituzionalismo, riforma sociale. Nel 1947, assieme a Ferdinando Tartaglia (un prete, sospeso a divinis per le sue posizioni radicali), costituisce il “Movimento di religione”, trasformatosi in seguito in “Movimento per una riforma religiosa”. A partire dal 1952 dà vita, a Perugia, al Centro di Orientamento Religioso (C.O.R.), che si presenta come “un luogo di riunione settimanale per discussioni su problemi di orientamento religioso, aperte a tutti”[3].

Una tale forma di libera ricerca religiosa è mal tollerata dalla Chiesa cattolica degli anni ’50, arroccata su posizioni conservatrici ed autodifensive. Nel 1956, sotto il pontificato di Pio XII, il Sant’Uffizio pone all’indice il libro di Capitini Religione aperta, che riassume organicamente i temi principali della sua esperienza: l’apertura a tutti, la realtà liberata, la morte, l’amore, il peccato, la pena, Dio, il dolore, la nonviolenza, il valore, l’umanesimo, il socialismo.

L’impegno di Capitini a favore della pace si dispiega lungo tutto il secondo dopoguerra. Nel 1949 egli prende posizione a favore di Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza italiano ufficialmente dichiaratosi tale e condannato dal Tribunale Militare. Questo episodio segna l’inizio di un impegno costante a sostegno degli obiettori di coscienza. Negli anni ’50 Capitini promuove una serie di convegni internazionali sul tema della nonviolenza e fonda un gruppo di studio “Oriente-Occidente”. Nel 1952 si costituisce, per sua iniziativa, il “Centro di Coordinamento Internazionale per la Nonviolenza”, primo nucleo del futuro “Movimento Nonviolento”.

Nel 1961, al culmine della guerra fredda, Capitini organizza, con l’aiuto di forze politiche della sinistra, la “Marcia per la Pace e la Fratellanza dei Popoli”, da Perugia ad Assisi, con lo scopo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla necessità di difendere la pace. Da tale iniziativa sorge la Consulta Italiana per la Pace, con compiti di coordinamento rispetto alle associazioni per la pace esistenti sul territorio nazionale. Si formalizza la costituzione del Movimento Nonviolento.

Negli anni ’60 Capitini si dedica assiduamente all’attività di coordinamento ed alla promozione di convegni su tutti i temi inerenti il problema della pace: dal disarmo, alle tecniche della nonviolenza, alla nonviolenza come strategia di cambiamento sociale. Nel 1964 fonda la rivista “Azione Nonviolenta”. Contemporaneamente, fa uscire un altro giornale mensile, “Il potere è di tutti”, che tratta temi connessi con il problema della democrazia diretta e il controllo dal basso delle istituzioni.

Fra il 1966 e il 1968 vengono pubblicati: Le tecniche della nonviolenza, in cui sono ampiamente illustrati i principi e gli elementi dell’azione sociale nonviolenta, Educazione aperta, che raccoglie i contributi di Capitini al dibattito pedagogico, La compresenza dei morti e dei viventi, la sua opera più impegnativa, in cui trova formulazione compiuta e sistemazione rigorosa dal punto di vista speculativo la ‘religione della compresenza’.

Nel 1968 Capitini si spegne per i postumi di un intervento chirurgico. Escono postumi, nel 1969, Il potere di tutti, che contiene Omnicrazia, l’opera sul potere a cui Capitini si era dedicato negli ultimi mesi di vita, e le Lettere di religione, da lui diffuse presso gli amici.

Fra le numerose opere di Capitini[4], oltre quelle già citate, risultano degne di nota: Saggio sul soggetto della storia (1947), di impostazione prettamente filosofica, L’atto di educare (1951) e Il fanciullo nella liberazione dell’uomo (1953), che contengono elementi importanti per la comprensione della sua prospettiva sia filosofica che pedagogica, In cammino per la pace (1962), raccolta di documenti e riflessioni riguardanti la marcia Perugia-Assisi.

Superare la finitezza

Aldo Capitini può essere definito, per certi versi un autore ‘esistenzialista’. Il suo percorso di approfondimento prende le mosse dalla constatazione dolente e appassionata della ‘finitezza’ della condizione umana, del limite che contraddistingue ogni aspetto della vita. Ad uno sguardo disincantato, la realtà di questo mondo, nelle forme in cui attualmente si presenta, si rivela come radicalmente insufficiente, inadeguata: sia a livello sociale che naturale, appare contrassegnata dall’ingiustizia, dalla prepotenza, dalla violenza, dalla sopraffazione del più debole da parte del più forte. La società è strutturata in modo tale che “alcune mani hanno ricchezze grandissime, altre mani, pur lavorando tutto il giorno, non riescono a riportare a casa un guadagno sufficiente; alcuni hanno un potere grandissimo, e molti altri debbono raccomandarsi e ubbidire per salvare la semplice vita”[5]. La natura è il luogo “dove il pesce grande mangia il pesce piccolo”, incarna la legge della forza allo stato puro. Essa è estranea, ostile all’uomo, indifferente alle sue esigenze: “copre con l’acqua di un’inondazione ugualmente il volto di un bimbo e di un sasso”. Oltre a tali fattori negativi, poi, la vita delle creature è soggetta ineluttabilmente al limite della morte. La morte è il limite supremo che costituisce I’ essenza della finitezza, la definisce in quanto tale, la condanna all’insufficienza. Essa annienta gli individui, cancella i volti (e “quanto ci vuole perchè si formi un volto!”), vanifica i legami, sembra contraddire ogni valore positivo.

La constatazione di tutto questo genera in Capitini un sentimento di ribellione. La realtà, com’è attualmente configurata, non corrisponde alle esigenze più profonde dell’uomo, che aspira, nel proprio intimo, a realizzare l’unità infinita con tutti, desidera il riscatto e la valorizzazione di ogni singolo. La realtà presente, che separa e distrugge gli individui, è inadeguata ai bisogni umani: attira quindi su di sè un giudizio di squalifica, di condanna. Una realtà siffatta non merita credito, non merita neppure di continuare. È doveroso opporvisi, contestarla, metterla in questione, dimostrarne l’illegittimità, al fine di suscitare un moto di reazione nei suoi confronti. “Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perchè non posso approvare che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte”[6].

Forte è in Capitini la polemica con la realtà. Ricorrente è l’appello all’urgenza di una “scontentezza radicale” verso i modi attuali di darsi della realtà. La sua è una posizione di fondamentale contrasto col mondo, dissidio con l’esistente, conflitto con la realtà costituita. “Finchè siamo davanti ad una società-realtà come è questa, non ci si può borghesizzare e accettare i modi con i quali essa si manifesta. Ci si pone in una posizione di protesta-rivoluzione”[7].

La posizione di Capitini è fondamentalmente una posizione rivoluzionaria: imperniata sull’istanza di cambiamento, finalizzata ad una tramutazione radicale dell’assetto del reale. La tramutazione è la prospettiva generale entro cui si inquadra l’opera ( teorica e pratica) di Capitini. Sia attraverso le idee che attraverso la prassi, egli mira essenzialmente al cambiamento, al miglioramento, alla trasformazione del mondo. “A me interessa discriminare nel mondo ciò che va e ciò che non va, e m’importa che io e il mondo ci liberiamo da ciò che non va. Il problema non è di autenticare e perciò ripetere il mondo, di conformarsi, ma di trasformarlo. C’è un compito di miglioramento”[8].

La priorità della tramutazione si fa priorità dell’impegno. Il cambiamento esige di essere attuato attraverso le scelte e gli impegni dei soggetti: richiede una prassi assidua volta al superamento dell’esistente e alla promozione del nuovo. Tale prassi deve seguire un criterio di globalità. Nella prospettiva di Capitini, il militante nonviolento, o “persuaso religioso”, non si limita a promuovere un rinnovamento delle strutture della società, ma auspica una tramutazione complessiva, globale, che investa la realtà nelle sue tre dimensioni: sociale, naturale, psicologica. “La liberazione non è soltanto da una società ingiusta, ma anche dalla natura che dà la morte, dalla nostra sostanza umana che dà il peccato”[9]. Si tratta di impegnarsi contemporaneamente nella trasformazione della società in cui si vive (eliminazione dello sfruttamento e dell’autoritarismo), della propria anima (superamento dell’egoismo), della natura (superamento della potenza e riscatto della morte).

L’impegno di tramutazione è volto contro tutte le strutture oppressive e limitanti l’uomo, ed ha come fine supremo l’instaurazione della “realtà liberata”. La realtà liberata rappresenta il superamento di ogni dato negativo legato alla condizione di partenza dell’uomo. In essa, si dà la modificazione e consumazione totale del male: la fine del dolore, del peccato, della morte. Essa interpreta un ideale di liberazione integrale dell’uomo, di riscatto totale della finitezza. ” … mi sono teso alla fine del male, di tutto il male, anche del pesce piccolo mangiato dal pesce grande, e dell’uomo sconosciuto straziato dall’infelicità; mi sono aperto ad una realtà che cominciasse con il valore, con la gioia, ed ecco che dal seno di questo atto colgo l’inizio, il lieve ma vero inizio della realtà liberata dai limiti e dal disvalore e dall’insufficienza… “[10]. La cifra della realtà liberata è il riscatto degli ‘ultimi’, la redenzione delle persone più deboli, limitate, relegate agli ultimi posti nella società o condannate dalla natura a una condizione di inferiorità.

Il sistema di pensiero di Capitini muove da un intenso senso di solidarietà verso i sofferenti. Vive nelle sue pagine un’ attenzione appassionata, una cura affettuosa nei confronti di tutti gli esseri colpiti dalla realtà, emarginati dalla vita, schiacciati dai limiti (i deboli, i malati, gli inattivi, i vinti, i disprezzati, gli oppressi, i pazzi), che si fa identificazione con le loro esigenze, assunzione della loro sorte, volontà di riscatto della loro condizione. “Ho sofferto acutamente nel vedere, proprio al centro della mia attenzione, che c’è chi è colpito dalla realtà com’è ora: l’ammalato, l’esaurito, lo stolto, il morto, e mi sono messo in rapporto – attraverso il tu a quell’infelice – con una realtà che non lo escluda e lo tenga unito con gli altri esseri che sono nati e lo renda uguale e lo compensi”[11]. Capitini è ispirato dalla passione per il riscatto degli ultimi, dalla volontà di “liberare gli spenti, gli schiacciati, i diminuiti, per portarli tutti sulla linea della presenza”[12]. Muove alla ricerca di un piano di realtà che consenta la valorizzazione di tutti, la compensazione dell’insufficienza, la realizzazione della perfetta uguaglianza, una realtà che comprenda “chi non ha e chi non è”. L’ispirazione profonda della filosofia di Capitini è la ribellione alla disuguaglianza, all’esclusione, all’annullamento degli esseri, retaggio della realtà limitata, e la volontà di redenzione universale, vicinanza assoluta, presenza eterna di tutti gli individui mai comparsi alla vita.

La compresenza

Per Capitini, tale forma di liberazione suprema ed universale è possibile, in quanto la realtà è intrinsecamente modificabile. Essa non è un blocco chiuso, statico: è dinamica, mobile, aperta a qualsiasi sviluppo. “Se pensate che la realtà sia un blocco, un sistema, finite per imporre prepotenti dogmi, tirannici assolutismi. Questo blocco è semplicemente un’apparenza: la realtà si apre continuamente in novità”[13]. Tale apertura è prerogativa della realtà proprio in quanto questa è contrassegnata dal limite: è insita nella struttura stessa della finitezza. Tutto ciò che è limitato, inadeguato, tende naturalmente a trascendere se stesso, a superarsi, a modificarsi, per raggiungere livelli di maggior positività. La finitezza è intrinsecamente aperta al proprio superamento. Le forme attuali della realtà sono contingenti: possono sempre trasformarsi, svolgersi in meglio. Anche gli aspetti negativi possono essere superati, fino ad esiti radicalmente nuovi. Per l’uomo che aspira a cambiare il mondo in meglio, si tratta di assumere l’apertura della realtà, di penetrare oltre la superficie per individuare le potenzialità positive insite nel profondo delle cose e portarle alla luce, svilupparle, realizzarle tramite il proprio impegno.

Per Capitini, la realtà si articola in molteplici livelli. Il mondo dei “fatti”, della prepotenza, della violenza, non è tutto: al di sotto di esso, apparentemente conculcato ma insopprimibile, vera anima dell’uomo e della storia, sta il mondo dei “valori”. Ad esso appartengono l’arte, la religione, la cultura, la solidarietà, l’amore, la nonviolenza. Per “valore” Capitini intende tutto ciò che ‘di buono e di bello’ può essere prodotto in questo mondo, dal più grande atto di eroismo al più piccolo gesto di dedizione che un individuo possa compiere. É su questo piano che si realizzano il riscatto di ciascun individuo e la liberazione dal limite. É in questa sfera che Capitini inscrive la dimensione della “compresenza”.

La teoria della compresenza è l’aspetto più tipico della filosofia di Capitini, La compresenza consiste nella comunità etica universale, nella cooperazione eterna ed infinita di tutti gli esseri alla produzione dei valori. “Tutti gli esseri che mai furono e che sono, morti e viventi, costituiscono una compresenza che s’accresce dei nati e che è tenuta insieme e unificata dalla produzione dei valori”[14]. Alla base della compresenza sta l’assunto dell’intrinseca coralità del valore: “il valore non sta in un rapporto con un essere soltanto, o con un gruppo, in un rapporto sempre particolare, ma è in rapporto con tutti, è anzi ciò che unisce intimamente tutti, perché è aperto a tutti, e tutti dal loro intimo cooperano all’essere di quel valore: ogni atto di valore è corale, espressione di tutti, e vi ritroviamo perciò tutti”[15].

Il valore è un atto corale, una produzione collettiva. Non è un prodotto individuale, una posizione del singolo, frutto esclusivamente del suo impegno e delle sue capacità. Esso è intrinsecamente frutto di cooperazione: risulta dalla collaborazione di “tutti gli esseri che siano mai nati”. Ogni individuo che partecipi all’essere, contribuisce, per ciò stesso, al valore: indipendentemente dalle circostanze della sua esistenza e dalla qualità della sua condotta, egli fornisce un contributo essenziale ed insostituibile alla produzione, all’affermazione ed allo sviluppo nel mondo di ciò che è fornito di validità. “Ogni essere coopera intimamente a tutto ciò che si fa di bello, di onesto, di doveroso, di universale insomma, tale da imporsi intimamente a tutti. Egli non se ne avvede, ma questo non importa; l’importante è che egli è unito a quell’atto, sembra inoperoso e non è, sembra ignorante, malato, impotente, annullato, morto, e non è tale, perché egli dà la sua parte proprio singolare, che ci vuole, che se non ci fosse, mancherebbe qualche cosa”[16].

In questa prospettiva, è rivalutato il contributo anche dell’essere più limitato, il quale, pur in modo sommesso, dà sempre qualcosa, aiuta gli altri e collabora con essi nell’affermazione del positivo, nella valorizzazione del mondo. “La compresenza è di tutti, ognuno in essa ha una parte che è inesauribile. ‘Tutti’ vuol dire: tutti gli esseri singoli che sono nati. Ci sono gli insufficienti relativi, che sono colpiti dal mondo della natura con qualche grave limitazione, ma vivono; ci sono gli insufficienti assoluti che sono i morti, e ci sono anche i viventi attuali, anche i minimi. Ogni essere vivente fa parte della compresenza, opera in essa”[17]. La compresenza comprende tutti, si estende a tutti. Stabilisce un’unità che non ammette limitazioni, che trascende ogni discriminazione legata alle condizioni naturali e all’accadere degli eventi: l’insufficienza, l’impotenza, la sfortuna, la malattia, perfino la morte. “Agli esseri che incontro, resto unito intimamente per sempre, qualunque cosa loro accada, in una compresenza intima, di cui fanno parte anche i morti; i quali non sono né finiti né stanno a fare cose diverse da noi, ma sono uniti a noi, cooperanti, a fare il bene, i valori che facciamo. Così anche chi è, per ora, sfinito, pallido, infermo, e pare che non faccia nulla di importante; anche chi è sfortunato, pazzo (per ora), è una presenza e un aiuto unito a tutti”[18].

La compresenza è il piano della valorizzazione di tutti, del recupero di tutti ad una funzione attiva, ad un ruolo produttivo, ad uno sviluppo positivo. Ristabilisce quell’eguaglianza assoluta fra gli esseri, che la natura così spesso insidia ed infrange. “Dal mondo della natura fatto di vitalità e di potenza, che lascia ‘finire’ l’individuo essere vivente, mi apro alla realtà che dà uno sviluppo ad ogni essere individuo: la compresenza, che ristabilisce prontamente l’eguaglianza della cooperante realtà di tutti”[19]. La compresenza è l’autentica realtà di tutti: la dimensione in cui tutti gli esseri trovano una realizzazione e uno sviluppo, oltre i loro limiti mondani; una specie di realtà ‘altra’, più profonda e più vera, radicalmente diversa da quella che appare alla superficie della natura e dalla storia, una seconda dimensione che si cela nell’intimo degli eventi e degli individui, rappresenta l’essenza di ogni cosa, la vera sostanza dell’essere.

Caratteristiche della prassi nonviolenta

La teoria della compresenza ha un’immediata valenza pratica. Se la coralità è la sostanza dell’essere, la struttura profonda della realtà, spetta ai soggetti estrinsecarla, realizzarla nei fatti: è compito di ogni essere umano operare per organizzare l’esistente in modo consono alla compresenza, per adeguare la realtà ai valori, per realizzare l’unità fra tutti gli esseri, per investire la storia della tramutazione. Da ciò deriva, nella filosofia di Capitini, il primato riconosciuto alla prassi, la rilevanza centrale attribuita all’impegno personale, al lavoro concreto di trasformazione della realtà. La prassi tramutativa, per essere efficace, deve presentare determinati requisiti. Essa deve essere “pura”, cioè esente da motivazioni egoistiche, e “aperta”, ovvero orientata al superamento dell’esistente, finalizzata alla promozione del radicalmente nuovo.

La forma suprema di prassi pura è la nonviolenza. La nonviolenza, secondo Capitini, presenta molteplici aspetti. Nella sua espressione negativa, essa è semplicemente “scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente”. Ma essa contiene un nucleo positivo, costruttivo, che costituisce la sua sostanza più autentica: in tal senso si definisce come “apertura all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo di tutti gli esseri”. La nonviolenza è nella sua essenza, promozione dell’ alterità, pura pratica del tu. “La nonviolenza è, dunque, dire un tu ad un essere concreto e individuato; è avere interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui; è aver gioia che esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo la nascita: assumiamo su di noi l’atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri”[20].

In Capitini, il “tu” designa la dedizione assoluta all’altro, l’amore disinteressato ed incondizionato: disinteressato, in quanto non è suscitato da interessi egoistici e non esige contraccambio; incondizionato, in quanto non dipende dal giudizio, dalla valutazione delle qualità e delle azioni dell’essere cui si rivolge. Nell’atto del tu vi è una componente irrinunciabile di ‘gratuità’: esso è gratitudine per ogni essere, pura gioia per l’esistenza dell’altro. Si traduce in appassionamento alla sorte del singolo, attenzione infinita all’individuo, assunzione delle sue esigenze ed aspirazioni, riconoscimento e valorizzazione della sua autonomia e diversità. “Ho sentito che lo stesso appassionamento per i singoli, movendo da chi soffre, poteva caricare il tu di tanta verità penetrante che mi parve alto, altissimo, infinitamente dato, nel silenzio prima che nella parola, verso un singolo essere, prendendo su questo essere con tutto il suo esistere, e il suo bello e il suo brutto. Ho trovato così il valore di un tu rivolto ad un essere, come se non ci fosse nessun altro che glielo volga[21].

Nell’apertura nonviolenta, l’assunzione dei bisogni dell’altro giunge fino all’identificazione. La nonviolenza si basa sull’interiorizzazione dell’alterità: “…la prima tecnica nonviolenta da esaminare è quella del tu, del rivolgersi con l’animo e con l’azione ad un singolo individuo, in modo da interiorizzarlo, da sentirlo come prossimo, come se stesso”[22]. La nonviolenza, tuttavia, si esplica compiutamente quando l’interessamento al singolo assume una tensione universale, ci si impegna nel passaggio dal tu ai tutti, ci si rende disponibili a rivolgere ad ogni essere la stessa intenta dedizione che si rivolge al singolo, ad amare tutti di amore personale: ” … se la nonviolenza sta nell’attuazione del singolo tu, nella interiorizzazione viva di un individuo, l’orizzonte generale della nonviolenza si intravvede quando il tu resta non singolare, ma è la disposizione a rivolgerlo anche ad altri, a molti, possibilmente e progressivamente a tutti. É un tu non di scelta e di preferenza, ma un tu-tutti”[23].

La nonviolenza è amore aperto, esteso ad ogni essere; essa tende all’unione universale, all’attuazione dell’unità assoluta. “Facendo così per un essere particolare, poi per un altro e per altro e così via, noi viviamo per ogni essere, in occasione del suo incontro, l’unità. La nonviolenza fa vivere l’Uno-Tutti”[24]. La nonviolenza realizza la sintesi fra unità e molteplicità: persegue l’affermazione dell’unità congiunta alla valorizzazione dell’individuo. Essa si concretizza in alcune scelte pratiche, che uniscono in sé i due aspetti dell’attenzione al singolo e della tensione all’unità: la nonuccisione, la nonmenzogna, il vegetarianesimo.

La nonuccisione è il requisito minimo dell’azione nonviolenta: essa consiste nel rispetto inderogabile dell’integrità fisica di qualsiasi essere, ma si estende a significare l’astensione da qualsiasi azione che rechi danno od offesa all’esistenza dell’altro. La nonmenzogna è uno strumento efficace per vincere la separazione e l’estraneità, per raggiungere l’unità; essa equivale a riconoscere l’altro sempre presente al proprio intimo, a considerare il proprio pensiero come patrimonio comune. Il vegetarianesimo consente di estendere l’unità al mondo subumano, di esercitare la nonviolenza anche verso la natura animale.

Le pratiche descritte costituiscono l’aspetto individuale della nonviolenza. Ma essa presenta un’irrinunciabile valenza politica: si pone come strategia di cambiamento sociale. Aspirando al riscatto del singolo e all’affermazione dell’unità, la nonviolenza si oppone a qualsiasi condizione oppressiva, limitatrice, separatrice. Avversa ogni sistema sociale violento ed autoritario: “…la nonviolenza è implicitamente rivoluzionaria, perchè è ostile a tutto ciò che rappresenta una violenza cristallizzata, solo apparentemente nonviolenta: monarchie, attuali classi dirigenti, capitalismo, potere, ecc. Per essere a posto con la nonviolenza, bisogna anzitutto portarsi ad un punto di squalifica e di fine dell’ordine com’è attualmente … “[25]. La nonviolenza è, per sua essenza, principio e strumento di trasformazione della realtà; è la via della tramutazione, il metodo proprio della rivoluzione aperta. Persegue la rivoluzione universale ed assoluta: “la nonviolenza ha questi due caratteri: 1. che la liberazione la vuole per tutti; 2. che la liberazione la vuole contro tutto … “[26]. Essa, infatti, in quanto unità-amore, aspira a realizzare le condizioni che consentano a tutti di esplicare una vita in pienezza, nella libertà, nel benessere, nella cultura, nell’affermazione del valore in ogni campo. Si rivela come il mezzo più adatto a raggiungere tale obiettivo, in quanto Io anticipa in sè. La nonviolenza rappresenta la coincidenza di mezzo e fine, è mezzo adeguato al fine. Essa, infatti, persegue come obiettivo la liberazione, ma mostra già in sè i modi, lo stile, i contenuti della realtà liberata, anticipa i frutti della liberazione. La liberazione è rappresentata dalla piena esplicazione della compresenza in una realtà esente dai limiti. La nonviolenza tende costantemente a stabilire accordi, ad allargare la sfera della cooperazione, nella preoccupazione per la salvaguardia di ogni singolo, nella convocazione di tutti all’unità.

La specificità del metodo nonviolento consiste nell’ apertura verso l’avversario. “Il satyagrahi avversa non il peccatore, ma il peccato; ama profondamente la persona che fa una cosa ingiusta; possibilmente vorrebbe avere l’avversario alleato nella lotta contro una cosa ingiusta. Cioè il satyagrahi non identifica il peccatore col peccato, e considera superiore al peccato l’unità col peccatore … “[27]. Regola costante della nonviolenza è la distinzione fra peccato e peccatore: ciò orienta ad uno stile che associa alla condanna dell’atteggiamento l’apertura verso la persona, al rigore nel perseguire i valori, l’indulgenza verso gli altri.

La nonviolenza, in quanto opposizione all’ordine,costituito e tensione ad una realtà ideale, esprime una forte carica polemica: individua nell’ordine esistente gli aspetti ed i comportamenti negativi (ingiustizie, oppressioni, discriminazioni, violenze) e si impegna a combatterli. Non evita i conflitti, ma li assume, affrontandoli con metodo costruttivo. Avversa il fatto, ma non l’autore del fatto, che cerca anzi di convocare alla lotta per la giustizia. La nonviolenza si astiene rigorosamente dal distruggere, o anche solo dal colpire l’avversario. Il suo fine non è vincere, ma convincere: non mira alla sopraffazione dell’altro, ma alla sua persuasione, nella prospettiva suprema di una cooperazione universale nell’affermazione dei valori, Adotta quindi quelle tecniche (testimonianza, dialogo, trattativa, propaganda, noncollaborazione, obiezione di coscienza) che fanno appello alla ragione e alla coscienza dell’avversario. Tale metodo presuppone la fiducia nell’avversario, nelle sue risorse morali e spirituali, nella sua capacità di cambiamento, di miglioramento, di ‘conversione’. “Chi opera come ‘centro aperto’ ha la fiducia che gli altri possano rispondere al valore, dal loro intimo che è comune. La distruzione fisica dell’avversario parte o dal principio che esso sia semplice vitalità, che se si oppone va eliminata; o dal principio che esso sia tutt’uno con la sua situazione storica, per es. di re o di capitalista, Ma se l’avversario è intimamente compresenza producente valori, egli è capace di liberarsi dal suo ‘peccato’, e di adeguarsi alla compresenza, che è la sua eternità”[28].

Troviamo, sotteso a tale concezione, il principio del valore assoluto della persona: ogni essere ha un’importanza infinita, ha un ruolo insostituibile nell’ambito della compresenza, contribuisce all’affermazione del valore.”Tutti, anche i pazzi, sono intimamente qualche cosa di più di quello che essi sembrano e sono uniti intimamente a me. Ogni essere dal suo intimo mi aiuta al bene, al, valore, anche l’essere cattivo, anche l’essere paralizzato e spezzato in due dal mondo… “[29].Tale connessione originaria ed insopprimibile con la compresenza è il principio di apertura insito nell’individuo, il fondamento della sua riscattabilità e perfettibilità infinita. Per esso, l’individuo è irriducibile alla sua ‘attualità’, è superiore alla sua condotta, alle sue scelte ed azioni presenti, ha la possibilità di superare i propri limiti, è costantemente “aperto ad altro”, ad un'”ulteriore possibilità di essere”. “La religione porta a vedere che ciò che gli uomini sono, non è tutto il loro essere, è solo un punto, un aspetto, forse uno schema, un evento, un passato, ma che essi sono aperti ad altro; non chiude il ladro nella sua azione di furto, non identifica l’uomo con l’evento”[30]. ·

A questo criterio si ispira l’agire aperto, che evita il giudizio, tiene ferma la distinzione tra persone ed eventi, individua e promuove le potenzialità migliori dell’altro: ” … debbo operare il bene e amare tutti. E il giudizio non debbo farlo, cioè non debbo chiudere gli altri nel loro agire. Quando Gesù Cristo disse: non giudicate, poteva voler dire: voi vedete che quello è un peccatore, uno straniero, un nemico, non giudicatelo tale, chiudendolo in questo giudizio, come se non ci fosse che l’essere, ma amatelo, lasciategli davanti un’infinita possibilità … “[31]. É questo il metodo della rivoluzione aperta, che consente di arrivare alla liberazione “assieme a tutti” e di costruire la “società di tutti”.

La prospettiva politica

La concezione politica di Capitini è coerente con la sua impostazione filosofico-religiosa. La società ideale, verso cui debbono essere indirizzati gli sforzi di rinnovamento, è quella che realizza in sé le caratteristiche della “realtà di tutti”: assicura il riscatto e la piena realizzazione di tutti, nella liberazione da ogni forma di sfruttamento e di oppressione. “L’idea della compresenza porta un’influenza decisiva nella lotta per una società nuova, la cui novità non può essere che la possibilità dello sviluppo per tutti , la fine dell’oppressione e dello sfruttamento dell’uomo; la possibilità dell’utilizzazione comune dei beni, dell’accesso di tutti alla produzione e alla fruizione dei beni, alle deliberazioni e al controllo delle loro attuazioni”[32]. La società conforme alla compresenza concilia unità e singolarità, garantisce il rispetto dei diritti e la valorizzazione delle potenzialità dell’individuo e nello stesso tempo consente l’unità e la collaborazione fra i suoi membri.

Nella prima fase del suo impegno, Capitini concretizza questa intuizione nel progetto del liberalsocialismo[33]. Con tale formula designa la tensione alla massima socializzazione nel campo economico-politico e alla massima libertà nel campo spirituale e culturale: “…la gente è pronta all’ equivoco; e se si dice ‘liberalsocialismo’ intende non un massimo di socialismo unito ad un massimo di libertà, ma un socialismo blandissimo, soprattutto a spese degli altri, che non incida per nulla sulla proprietà privata; tutto il contrario del mio liberalsocialismo, per cui dovrebbe essere pubblica la proprietà dei mezzi di produzione e di commercio, e dovrebbe essere permanente il gruppo delle libertà di controllo e di espressione, nell’attuazione del potere di tutti”[34]. Il liberalsocialismo assume dal comunismo il collettivismo economico, propugnando la proprietà pubblica dei beni e dei mezzi di produzione; recepisce dalla tradizione liberale l’affermazione delle libertà legate alla sfera individuale ed alla promozione culturale (libertà di informazione, di ricerca, di critica, di controllo, di associazione, ecc.), di cui proclama l’irrinunciabilità. Esso aspira alla sintesi di socialismo e libertà. Tale modello rappresenta l’orizzonte generale dell’impegno politico di Capitini; all’interno di esso egli colloca il sistema, successivamente elaborato, dell’ omnicrazia.

L’omnicrazia si basa sul principio dell’universalità del potere: nella prospettiva della nonviolenza, ogni persona, anche la più debole e limitata, detiene una parte di potere, esplica un’influenza sulla vita sociale attraverso l’arma del consenso e del dissenso. “Ognuno deve imparare che ha in mano una parte di potere, e sta a lui usarla bene, nel vantaggio di tutti; deve imparare che non c’è bisogno di ammazzare nessuno, ma che, cooperando o non cooperando, egli ha in mano l’arma del consenso e del dissenso. E questo potere lo ha ognuno, anche i lontani, le donne, i giovanissimi, i deboli, purchè siano coraggiosi e si muovano cercando e facendo”[35]. É necessario mettere ognuno nelle condizioni di esercitare efficacemente tale facoltà, ovvero mettere nelle mani di tutti gli strumenti del potere. L’omnicrazia si attua attraverso la massima diffusione e decentramento del potere, con l’attivazione di una vasta rete di organi dal basso. “Bisogna aver pronta una vastissima rete di organi dal basso, di consulte locali, di comitati scuola-famiglia, di centri sociali più che per ogni parrocchia, di commissioni interne, di consigli scolastici e comitati universitari, di centri di addestramento alle tecniche nonviolente, di commissioni locali di controllo di tutte le forme di assistenza e previdenza, di sviluppo di assemblee per addestrare tutti”[36].

Tale modello comporta una ristrutturazlone del potere, che va intesa sia come redistribuzione (passaggio dalle mani dei pochi alle mani dei molti), sia come redefinizione (cambiamento della natura del potere stesso). Il “potere di tutti” è un potere di nuovo tipo: dissociato dalla coercizione e dalla violenza, per sua natura ‘anti-autoritario’. Non si realizza come imposizione dall’alto, ma come decisione e controllo “dal basso”, autogestione. “Per trasformare tutta la società è, dunque, necessario cambiare il metodo, e farla cominciare ‘dal basso’ invece che dall’alto. Bisogna cominciare uno sviluppo del controllo dal basso che dovrà crescere sempre più”[37]. Il potere di tutti si fonda sul coinvolgimento diretto dei cittadini, sulla loro massima responsabilizzazione e mobilitazione permanente. Non si esprime tanto nella dimensione istituzionale, quanto in forme associative di base, momenti meno formali e strutturati, quali l’assemblea e il centro.

Nella prospettiva politica di Capitini, l’assemblea ha un ruolo centrale: è la cellula primaria del potere, in quanto espressione diretta della realtà di tutti, riproduzione della compresenza; va convocata ad ogni livello, istituita in ogni associazione ed ente. “Il principio che l’assemblea ha il potere è valido, perché è ciò che assomiglia più di ogni altra cosa alla realtà di tutti, che è dal basso e onnicomprensiva. L’assemblea è una molteplicità che porta in sé l’unità, e perciò è il primum, la presenza del potere”[38]. Il centro è un gruppo di impegno che informa la propria attività alla massima libertà ed apertura. Esso “aggiunge” il proprio contributo alla realtà circostante, senza pretendere di imporre la propria visione e convertire gli altri, ed è aperto alla partecipazione di tutti. Con tali caratteristiche, rappresenta l’antitesi dell’istituzione, nei confronti della quale può avere un ruolo di integrazione o di critica e superamento. Proprio per la sua natura “aperta”, il centro assume totalmente la dimensione della ricerca, promuove il progresso verso sempre nuove sperimentazioni e forme, immettendo nella società un dinamismo di continua trasformazione: rappresenta e realizza la “rivoluzione permanente nonviolenta dal basso”[39].

Per una religione aperta

Nonostante l’impegno profuso nella promozione di attività di natura sociale e politica, Capitini non si qualifica principalmente come uomo d’azione. La sua posizione può essere meglio caratterizzata con l’attributo di ‘religiosa’. Egli stesso amava definirsi innanzitutto come “il ricercatore e il costitutore di una vita religiosa”, e mettere in evidenza l’attività svolta in questo ambito, secondo due direttive: l’elaborazione teorica volta a definire i principi e ad articolare gli aspetti di una “religione aperta”; l’impegno pratico mirante a diffondere un rinnovamento religioso nella società e ad ispirare l’”apertura” nelle coscienze, concretizzatosi in una serie di iniziative di carattere pubblico[40].

É estremamente difficile, se non impossibile, definire con precisione la posizione religiosa di Capitini. Essa, infatti, presenta caratteri di originalità, difficilmente riconducibili alle religioni storicamente costituite. É nota la posizione fortemente polemica di Capitini verso la Chiesa cattolica. Egli accusava la Chiesa di autoritarismo e settarismo. Rilevava in essa come difetto di base la “pretesa di possedere la verità”, la convinzione di rappresentare l’unica vera religione, ed imputava a tale presunzione l’origine del dogmatismo, ovvero della tendenza a propugnare principi e credenze come assoluti, ad imporre comandi arbitrari come indiscutibili, ad escludere le posizioni divergenti.

L”anti-istituzionalismo”[41] è la caratteristica più evidente della posizione religiosa di Capitini. La critica all’istituzione, del resto, nella sua opera, assume una valenza generale. Sia sul piano religioso che sul piano politico, l’istituzione rappresenta la chiusura: coi suoi dogmi, le sue regole rigide, le sue forme cristallizzate, trasforma la tensione in situazione, blocca ogni possibilità di rinnovamento. Per quanto storicamente necessaria ad organizzare la convivenza fra gli individui, essa va relativizzata, considerata provvisoria, strumentale rispetto a un grado di sviluppo ulteriore, che veda il libero auto-disciplinamento dei singoli e delle comunità. In vista di tale esito, la massima cura va dedicata alla formazione delle coscienze, che, depositarie della legge morale, dotate in sè degli strumenti necessari ad orientarsi nel mondo, vanno educate ad utilizzarli nel modo più efficace, a discriminare autonomamente il valore dal disvalore, perseguendo il primo e combattendo il secondo.

Anche sul piano della religione, Capitini si preoccupa di salvaguardare il primato della coscienza e l’autonomia dell’individuo, sostenendo la concezione di un Dio che si rivela e vive nell’intimo dell’uomo e lo sollecita ad esplicare le sue potenzialità migliori.

Per Capitini, la religione ha natura essenzialmente pratica. Egli sostiene l’impossibilità di accedere al divino per via teoretica, e indica come unico possibile un approccio pratico-esistenziale. Dio non si può conoscere alla stregua degli altri oggetti del mondo, perché supera il piano del mondo, trascende la sfera della realtà immediata, percepibile empiricamente. Una definizione oggettiva di Dio non rientra nelle possibilità dell’uomo. Per la prospettiva umana, Dio non è astraibile dalla vita: si coglie all’interno dell’esistenza, si incontra vivendo. Il punto di partenza consiste nell’assunzione integrale della propria condizione, nella presa di coscienza dei propri bisogni e delle proprie aspirazioni, limiti e potenzialità. Il compito religioso prioritario è quello di tendere la propria esistenza al massimo delle sue possibilità, di orientarla verso l’”apertura” (agli altri, ai valori, alla liberazione), creando lo spazio per l’accoglimento dell’alterità e dell’ulteriorità (in cui consiste l’essenza dell’esperienza religiosa).

Rispetto a questo itinerario, Dio si può configurare come punto di arrivo, ma l’adesione esplicita ad esso non si impone come necessaria, bensì semplicemente come libera “aggiunta”[42] al suo attingimento pratico attraverso l’esperienza della vita: ” … così avverrà per il chiarimento del problema di Dio: svolgere una serie di impegni, massimamente aperti, ai valori, agli altri esseri, ad una realtà liberata dal male. Secondo me, la conclusione di questo lavoro è che, se esso è fatto bene, con serietà, come cosa centrale della propria vita, si può arrivare a non parlare di Dio o a parlarne; e se non se ne parla si vive già implicitamente, e se se ne parla, si vede come un’aggiunta, un incremento, un essere a cui rivolgersi per meglio equilibrare, razionalmente e sentimentalmente, il nostro essere … “[43].

Per tale via si può arrivare ad incontrare Dio ‘al centro della realtà’, a coglierne l’intimità, l’infinita vicinanza: ” … Dio è di una illimitata mansuetudine e di un’infinita vicinanza. Non sta per suo conto; il suo infinito non è di essere trascendente, di sopra a tutto e tutti, ma di poter stabilire una vicinanza profondissima, eterna, senza limiti”[44]. La religiosità di Capitini è caratterizzata dal rifiuto della trascendenza divina, intesa come assoluta alterità ed irriducibile superiorità. Dio non è oltre: è “al centro”; è intrinseco al mondo e all’uomo; non è al di là, al di sopra del mondo, è l’essenza del mondo, la sostanza delle cose; è il positivo della vita, la dimensione autentica del reale.

In alcune pagine, esso sembra identificarsi con l’”Uno-Tutti”, ovvero con la compresenza stessa, con la coralità cooperante degli esseri e con quanto essa esprime nella storia. Capitini non si impegna ulteriormente nel chiarimento del concetto di Dio, non determina quale sia la sua ‘natura’. Tale sospensione è riconducibile alla sua prioritaria preoccupazione per l’impegno pratico, per il lavoro da dedicare alla trasformazione della realtà. In base a tale interesse, egli si occupa di Dio non nella sua essenza, ma nel suo rapporto con l’uomo, evidenzia i probabili modi della sua esplicazione, gli aspetti per cui esso è attingibile dall’uomo, le presunte prerogative di Dio comprensibili, sperimentabili, praticabili dalla nostra condizione esistenziale, le ‘funzioni’ che una determinata concezione di Dio può esplicare in rapporto alla prassi.

La persuasione dell’immanenza di Dio influisce in modo significativo sulla qualità della prassi. L’intimità di Dio si realizza soprattutto in rapporto all’uomo. Tramite e centro della relazione fra Dio e mondo è l’uomo, con la sua coscienza e le sue azioni. Dio si svela alla coscienza del singolo e si realizza attraverso i suoi atti. Dio è essenza di ogni cosa, potenzialità insita nell’intimo di ogni essere; possibilità della vita in pienezza. All’uomo spetta esplicarla, realizzarla sempre più compiutamente nel mondo. All’uomo compete la responsabilità di ‘realizzare’ Dio. Dio si afferma attraverso l’azione dell’uomo. Spetta a noi il compito di concretizzare quelli che, nella concezione teistica, venivano considerati gli “attributi” di Dio (bontà, bellezza, giustizia, validità, perfezione, ecc.), e che, in una prospettiva umanistica, possono essere identificati come le ‘potenzialità divine’ insite nella realtà. “I sommi attributi non vengono contemplati in sè, cercando di vederli; ma si cerca di viverli, avvicinandoli in ogni azione intimamente a tutto e a tutti”[45]. L’immanenza di Dio convoca l’uomo all’azione e conferisce alla religione un carattere eminentemente pratico. Se Dio non è una sostanza autonoma ed assoluta, un’ipostasi estranea al mondo, ma è l’essenza, la struttura intima del mondo, il centro ‘valido’ dell’uomo, esso non è da contemplare e da adorare, ma da vivere, da praticare e da svolgere: ” … Dio non da contemplare, ma da vivere in atti, da agire. Nel meglio, nel valore intrinseco di ogni azione, Dio scende, si particolarizza, ci sorregge…“[46]. É questo il nucleo della concezione religiosa di Capitini, che egli stesso definisce teismo pratico o monoteismo concreto .

La realizzazione di Dio equivale all’affermazione dell’amore. Fra le prerogative che Capitini attribuisce a Dio, spicca su tutte, fino quasi a porsi come descrizione della sua essenza, l’”apertura infinita”, la capacità inesauribile di amore, l’attitudine a “darsi”, a spendersi senza limiti: ” … intimità e vicinanza è Dio infinitamente aperto, Dio che si dà. Posso dire che Dio sia grandissimo, come blocco in sè immenso, come quantità; ma Dio che si dà è veramente più grande, veramente infinito”[47]. In definitiva, Dio è ‘il darsi’: è l’atto d’amore disinteressato, incondizionato. Si attinge, quindi, praticando l’amore, attuando la vicinanza infinita ad ogni essere, interiorizzando l’alterità: ” … amando, interiorizzando, mi porto a vivere in Dio”. Promuovere l’unità, aprire la propria individualità all’accoglienza, equivale a vivere/far vivere Dio.

In questa prospettiva, l’altro, il “tu” acquista un’importanza centrale, un “rilievo straordinario”: egli è il luogo della manifestazione di Dio, nella relazione con lui si rivela e si attua l’assoluto. “L’altro è l’essere della nostra coscienza, del nostro intimo; un infinito vive lì unito alla vita che sperimentiamo in noi. Amare queste persone infinitamente, vederle come centri, compiacersi di ciò, chiamarle dalla parte nostra, di noi che viviamo, rispettarle e adorarle così, è vita altissima, è un dovere”[48] L’atto religioso è l’atto di dedizione all’altro, di apertura a tutti, di amore infinito, di appassionamento per la vicinanza e la salvezza di ogni essere. L’impegno religioso consiste nell’affermare l’atto di Dio, nella sua essenza specifica, ovvero nell’assumere l’impegno all’amore e all’apertura, nel dedicarsi all’altro facendosi carico della sua liberazione. “Appunto perchè Dio è atto, non posso coglierlo che facendo anch’io un atto, cioè assumendo un impegno. Se io definisco: Dio è apertura di amore, vivrò l’apertura soltanto se mi aprirò, se assumerò l’impegno o orientamento di apertura nel presentare quella formula. La posizione della vita religiosa diventa quella di affermare l’atto di Dio dal suo stesso punto di essere, creare, salvare, liberare”[49].

Di conseguenza, l’essenza dell’esperienza religiosa si identifica con l’impegno a favore della liberazione, con l’attività dedicata al riscatto degli esseri da ogni situazione di insufficienza ed oppressione, alla promozione di condizioni di vita appaganti per tutti, alla instaurazione della “realtà liberata”. “La religione come è educazione e promovimento dell’apertura di unità amore, così è educazione e promovimento di apertura alla realtà liberata. L’una apertura è l’altra, ed entrambe si costituiscono coerentemente, svolgendosi ed arricchendosi di modi. Il nesso è innegabile: se io amo veramente gli esseri, non posso non contrastare alla realtà dei fatti che li percuote e li distrugge. E quindi, nella religione, non basta l’amore agli altri e il sacrificio per loro, perché questo non è che uno dei due elementi: occorre che ci sia anche l’altro, la liberazione per tutti, la prosecuzione di tutti in una realtà liberata … “[50]Concepita in tal modo, la religione si connette in modo essenziale alla politica, assume una valenza intrinsecamente politica: costituisce il fondamento, offre le motivazioni e le risorse dell’impegno sociale. “Per essere veramente religiosi bisogna passare per la vita pubblica. Su una partecipazione alla vita pubblica sorge la vita religiosa più autentica”[51].

Attualità del messaggio di Capitini

Il messaggio di Aldo Capitini presenta molti spunti utili per un approfondimento e un arricchimento dell’impegno nonviolento e della propria prospettiva esistenziale. Evidenziamo quelli che ci sembrano i più vivi ed attuali.

I) L’asserzione della fondamentale coralità della vita. L’individuazione della relazione come struttura dell’esistenza, la consapevolezza che l’identità risulta dal rapporto con l’alterità, che, per dirla con Adriana Zarri, “è il rapporto che ci costituisce: il confluire nel tu che mi da consistenza come io, il frangersi, quasi l’infragilirsi, nella pluralità che ci costituisce in unità”[52].

Nella compresenza, “l’io rinasce in tutti e con tutti”, l’individuo si apre alla collaborazione con gli altri, assume, anzi, l’apertura nella propria essenza, non è più entità autosufficiente, ma centro di relazionalità infinita. Ognuno è costituito dalle relazioni che intrattiene con ciò che lo circonda, è in un rapporto essenziale con gli altri, aiuta gli altri e coopera con essi per il fatto stesso di esistere. In tale ottica, l’altruismo prima di essere un dovere, è una condizione: la dedizione all’altro è connaturata alla struttura dell’io, nello spendersi per gli altri si trova il proprio vero sé. In tal modo, l’impegno risulta fondato ‘ontologicamente’, trova la propria motivazione più forte nella struttura stessa della realtà, che esige dagli esseri la cooperazione e la solidarietà come condizione della realizzazione.

2) L’appassionamento al singolo. Capitini muove, nella sua ricerca, dalla preoccupazione per la sorte del singolo, dalla passione per la salvezza dell’individuo, dalla volontà di assicurargli il riscatto totale. Tale appassionamento lo induce a rifiutare la crudeltà della realtà, a ribellarsi alla morte, a perseguire una forma di sopravvivenza che consenta di “dire tu in eterno”.

Al di là di tale esito metafisico, la ‘passione per il volto’ di Capitini si pone come provocazione salutare per noi ‘militanti’, abituati ad una prassi orientata a grandi finalità politiche, ma, a volte, incurante dell’individuo. Nessuna trasformazione sociale può produrre esiti positivi se trascura le esigenze dell’individuo, ne calpesta i bisogni insopprimibili, ne soffoca l’identità specifica. “Non c’è rivoluzione se si trattano gli uomini come sassi”[53]. Nell’ambito dell’impegno sociale, “salvare il tu” significa rispettare l’individualità delle persone con cui si viene a contatto, siano esse collaboratrici o avversarie, accoglierne la diversità, comprenderne le ragioni, assumerne le esigenze; mantenere una costante e appassionata attenzione alla persona.

3) La centralità del dialogo. La prassi nonviolenta è caratterizzata, secondo Capitini, da due prerogative: la fedeltà ai valori e l’apertura verso le persone. Essa, in altri termini, coniuga in sé i due aspetti della Verità e dell’Amore. Tale atteggiamento ha a proprio fondamento una concezione dialettica della verità. Secondo Capitini (come secondo Gandhi), la verità esiste oggettivamente, è la struttura profonda della realtà, l’essenza dell’essere: si identifica con il bene, il valore, la legge. Essa, tuttavia, è ‘più grande di noi’, trascende le capacità conoscitive dell’individuo. Per il punto di vista umano, la verità è inconoscibile nella sua totalità: è attingibile solo parzialmente. Tale consapevolezza esclude ogni forma di dogmatismo. Nessuno può legittimamente proclamare di avere in mano la verità: ognuno ne detiene soltanto una parte, un frammento, ne coglie un aspetto, secondo la sua particolare prospettiva; è necessario, quindi, che il singolo si apra agli altri, associ il proprio contributo a quello degli altri, per tentare di ricomporre l’insieme, ricostruire il quadro. ‘

La conoscenza della verità si dà nella forma della ricerca, la quale, per essere efficace, deve assumere carattere collettivo. La verità si svela, si chiarisce progressivamente attraverso la cooperazione, risulta dalla composizione dei diversi punti di vista. Il dialogo è il luogo dell’emergenza del vero: esso va inteso e praticato nella sua forma più autentica e radicale; va assunto come confronto dialettico, mutua collaborazione, reciproca influenza; nella massima apertura all’altro, nella disponibilità a comprendere le sue ragioni, ad assumere il suo punto di vista, finanche a lasciarsi convincere da lui. Nella pratica di tutti i giorni, la disponibilità al dialogo si esplica come tensione a stringere alleanze, a creare ampie convergenze, a cercare collaborazione ovunque possibile, a chiamare a lavorare attorno a progetti validi e condivisibili il maggior numero di persone, senza chiusure pregiudiziali, senza sbarramenti di natura ideologica o personale.

4) L’attenzione agli ultimi. La volontà di trovare un piano di riscatto per le persone più deboli, l’appassionamento per la sorte degli oppressi, degli sfortunati, dei maltrattati. Ogni progetto di rinnovamento sociale è imperfetto se non parte dagli ultimi, se non assume come criterio di verifica il loro benessere. Una società può dirsi giusta solo quando sia in grado di attribuire un posto e conferire una dignità al più debole dei suoi membri.

5) La priorità dell’impegno personale. É convinzione di Capitini che il cambiamento della realtà cominci dal cambiamento di se stessi. I soggetti umani determinano la configurazione della realtà in base al tipo di rapporto che stabiliscono con essa; l’assetto delle cose dipende dalle scelte e dalle azioni degli individui. É quindi necessario che ciascuno modifichi il proprio comportamento, riveda il proprio stile di vita, attivi il cambiamento innanzitutto in sé, assuma personalmente gli atteggiamenti cui desidera vedere informata la realtà. In tale prospettiva, diventa fondamentale la formazione interiore, assume un’importanza centrale l’impegno di autoeducazione, lo sforzo di crescita e maturazione personale.

6) L’inserimento dell’impegno pacifista nell’impegno politico. Capitini non si è dedicato alla causa della pace in modo esclusivo e settoriale: si è sempre sforzato di attivare una rete di iniziative che promuovessero un rinnovamento complessivo della società. Questa indicazione può tornarci utile, in un momento in cui fatichiamo ad uscire dalle secche di un settorialismo, che sembra aver ridotto la nonviolenza ad un affare ‘per addetti ai lavori’, e reso il pacifismo un’occupazione specialistica.

Pace non significa soltanto assenza di guerra, ma benessere e realizzazione. La nonviolenza è la ‘forza della Verità’: coagula attorno a sè tutta una serie di valori (quali la giustizia, la libertà, la solidarietà), che definiscono la prospettiva di un’esistenza in pienezza. Lavorare per la pace equivale ad impegnarsi per instaurare nell’ambiente in cui si vive le condizioni di una vita pienamente umana. Per ottenere ciò, è doveroso ‘fare politica’, nel senso di inserirsi negli spazi dove si programma e si organizza la vita pubblica, aprire quelli esistenti a una più larga partecipazione, crearne di nuovi dove non ne esistono; tutto questo, mantenendosi fedeli al criterio, che Capitini ci ha indicato, di “cominciare dal basso”, di lavorare ‘con’ la gente, anzichè semplicemente ‘per’ la gente, sollecitando ognuno a farsi protagonista, a prendere in mano la propria vita, convocando tutti a progettare e a costruire un futuro migliore.

7) La tensione alla tramutazione. L’istanza di una rigenerazione radicale della realtà, di un cambiamento complessivo, che investa ogni dimensione dell’esistente. La meta suprema di tale tensione, la “realtà liberata”, date le sue caratteristiche fortemente ideali e la sua distanza dall’esistente, può ben essere fatta rientrare nella categoria dell”utopia’. Ma, se concepita in modo corretto, l’utopia, lungi dal giustificare l’evasione, assume una valenza positiva in rapporto all’impegno storico. Essa esercita una funzione di stimolo sulla prassi sociale e politica: indica la direzione verso cui si deve tendere, la meta verso cui orientare l’impegno, sollecita a ricercare il meglio, a non accontentarsi dei risultati parziali ottenuti con un’azione riformista di corto respiro. L’utopia vale come ‘ideale regolativo’ della prassi: il riferimento ad essa serve a mantenere sempre viva la tensione, a promuovere progetti di ampio respiro, ad elevare il tono della politica dalla gestione dell’esistente al perseguimento dell’ideale.

Chiaramente, per produrre risultati storicamente significativi, l’utopia va mediata, scomposta, calata nella realtà concreta. La tensione utopica va associata ad un impegno di mediazione, critico e severo, che sappia tradurre il sogno in piano d’azione, spezzare l’ideale in azioni quotidiane, comprensibili e praticabili, feconde di cambiamenti, anche modesti, ma significativi in ordine a una progressione verso il bene più grande. L’azione politica esige l’integrazione di realismo ed utopia: esatta valutazione della situazione presente e apertura ad una dimensione ulteriore, fedeltà al quotidiano e tensione all’ideale.

Questa duplice istanza comporta la sintesi fra ‘tramutazione’ e ‘trasformazione’. La tramutazione è la tensione verso il cambiamento globale, la rigenerazione della realtà. Nella logica della trasformazione, rientra la programmazione di un’azione efficace ed incisiva, adeguata alla situazione storica; l’impegno quotidiano, paziente, costante, disponibile a un certo grado di compromesso, che procede per piccoli passi e si accontenta delle acquisizioni parziali. La trasformazione è la tattica; la tramutazione è la strategia. La tramutazione è l’orizzonte generale della trasformazione.

In questo quadro, l’impegno per il cambiamento non si fa facili illusioni sulla possibilità di un rivolgimento totale ed immediato, ma è sostenuto dalla fiducia nella possibilità di un miglioramento parziale e progressivo della realtà, che non si esclude possa approdare prima o poi alla piena liberazione. Per intanto, nell’incertezza della meta, l’importante è concentrarsi sulla qualità del cammino. Non sapendo se e quando la liberazione assoluta possa essere realizzata, conviene affermare fin d’ora quegli aspetti e forme della liberazione che rientrano nelle nostre possibilità, anticipare le dimensioni della vita in pienezza; comportarsi già nel momento presente come se questo appartenesse alla realtà liberata.

Estratto dalla tesi di laurea “Pensare la liberazione. Analisi e critica filosofica del pensiero di Aldo Capitini”, discussa in Luglio 1993 presso l’Università degli Studi di Padova.

  1. Sul valore positivo dell’ideologia ed, in particolare, sul rapporto tra ideologia e fede, si veda il bel saggio di ITALO MANCINI “Dignità delle ideologie e mediazione fra cristianesimo e marxismo”, in AA. VV., Nonviolenza e marxismo, Libreria Feltrinelli, Milano 1981.
  2. A. CAPITINI, “Attraverso due terzi di secolo”, in Italia nonviolenta, Perugia, Centro Studi Aldo Capitini 1981, p.11.
  3. A. CAPITINI, Educazione aperta, Firenze, La Nuova Italia 1967, p.267.
  4. Un’ampia bibliografia degli scritti di Capitini e degli interventi riguardanti il suo pensiero, raccolta dal prof. Aldo Stella, è pubblicata negli “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, IIL V, 1, Pisa 1975, pp.379-412, ripresa e ampliata in G. ZANGA, Aldo Capitini, la sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci 1988, pp.180-215.
  5. CAPITINI, Il potere di tutti, Firenze, La Nuova Italia 1969, p.151.
  6. CAPITINI, Religione aperta, Vicenza, Neri Pozza Editore 1964, pp.12- 13.
  7. CAPITINI, La compresenza dei morti e dei viventi, Milano, Il Saggiatore 1966, p.131.
  8. CAPITINI, Il potere di tutti, cit., pp.249-250.
  9. Ivi, p.268.
  10. Ivi, p.198.
  11. CAPITINI, La compresenza … , cit., p.11.
  12. CAPITINI, La realtà di tutti, Pisa, Tornar 1948, p.45.
  13. CAPITINI, Vita religiosa, II ed., Bologna, Cappelli 1985, p.70.
  14. CAPITINI, La compresenza … , cit., p.12.
  15. CAPITINI, Religione aperta, cit., p.137.
  16. Ivi, p.168.
  17. CAPITINI, La compresenza … , cit., p.17.
  18. CAPITINI, Religione aperta, cit., p.13.
  19. CAPITINI, La compresenza … , cit., p.16.
  20. CAPITINI, Religione aperta, cit., pp.143-144.
  21. CAPITINI, Il potere di tutti, cit., p. 189.
  22. CAPITINI, Le tecniche della nonviolenza, Milano, Libreria Feltrinelli 1967, p.46.
  23. lvi, p.47.
  24. CAPITINI, Religione aperta, cit., p.144.
  25. CAPITINI, Il potere di tutti, cit., p.206.
  26. Ivi, p.240.
  27. CAPITINI, Le tecniche della nonviolenza, cit., pp.21-22.
  28. CAPITINI, La compresenza … , cit., p.142.
  29. CAPITINI, Il potere di tutti, cit., p.203.
  30. Ivi, p.243.
  31. Ivi, p.251.
  32. CAPITINI, La compresenza … , cit., p.140.
  33. Capitini elabora il concetto di “liberalsocialismo” nel periodo dell’opposizione antifascista. Raccogliendo la collaborazione degli amici e dei giovani che incontra, promuove , assieme a Guido Calogero, la formazione del ”Movimento Liberalsocialista”, il cui primo Manifesto compare nel 1940. Nel 1943, il Movimento Liberalsocialista confluisce nel Partito d’Azione. Capitini non vi aderisce, sia perchè riscontra in esso il prevalere dell’impostazione repubblicano-democratica su quella socialista, sia perchè ritiene la forma del ‘partito’ inadeguata a suscitare il coinvolgimento di tutti in un programma di rinnovamento complessivo della società. Anche successivamente, Capitini non aderì mai ad alcun partito, privilegiando la formula del movimento, dell’attività libera ed aperta svolta a contatto diretto con ogni persona. Dal punto di vista politico, usava per sé la definizione di “indipendente di sinistra”.
  34. CAPITINI, Antifascismo tra i giovani, Trapani, Cèlèbes 1966, p.140. Dalle caratteristiche descritte, risulta evidente che il liberalsocialismo non va confuso con la ‘socialdemocrazia’, intesa come correzione in senso socialistico del sistema capitalista, mantenimento della proprietà privata congiuntamente all’attuazione di riforme sociali.
  35. CAPITINI, Il potere di tutti, cit., p.152.
  36. Ivi, p.82.
  37. Ivi, p.152.
  38. Ivi, p.90.
  39. Capitini cercò di dare attuazione a questa idea attraverso il movimento dei C.O.S. (Centri di Orientamento Sociale), che egli animò negli anni dell’immediato dopoguerra in alcuni paesi e città dell’Italia Centrale. Nel 1945, a un mese dalla Liberazione, egli promosse il primo COS a Perugia. Il COS era un luogo di discussione e confronto aperto alla partecipazione di tutti e dedicato all’analisi dei problemi di ogni tipo. “Il carattere fondamentale del COS era che l’esame dei problemi fosse esteso a tutto e fatto con l’intervento di tutti. Il COS era la cellula di una comunità aperta, di una società di tutti”. Il COS si riuniva due volte alla settimana, dedicando un incontro alla discussione dei problemi amministrativi, e un incontro all’approfondimento di tematiche culturali ed ideologiche. Al COS partecipavano sia la popolazione, sia le pubbliche autorità (amministratori e responsabili di enti pubblici): in tal modo, esso fungeva da tramite fra detentori del potere e base popolare, svolgendo una funzione di controllo, critica, stimolo, integrazione (pur non avendo potere deliberativo). Il COS poteva prendere anche iniziative autonome (acquisti cooperativi, biblioteche, doposcuola, ecc.). Molta cura veniva dedicata alla formazione culturale, giudicata da Capitini irrinunciabile per la costruzione di una società omnicratica.
  40. II ”Movimento per una riforma religiosa”, fondato da Capitini nel 1947, si proponeva di avviare un processo di rinnovamento, utilizzando il contributo delle diverse religioni e del laicismo, superando l’impostazione religiosa tradizionale e ricercando una sintesi tra religione e socialità; esso operava principalmente attraverso convegni, ai quali partecipavano rappresentanti di diverse correnti religiose, politiche, sociali, studiosi di religioni, liberi ricercatori. L’esperienza del C. O.R. (Centro di Orientamento Religioso), nata e sviluppatasi a Perugia, offriva periodiche occasioni d’incontro e riflessione a persone dai più diversi orientamenti (liberi religiosi, evangelici, cattolici, bahai, ebrei, laici, marxisti), accomunate dal desiderio di sviluppare una dimensione religiosa aperta e liberante, innestandola in un progetto di rinnovamento sociale.
  41. Capitini intendeva affidare la riforma religiosa a dei Centri religiosi aperti, strutturati sul modello del C.O.R., che avrebbero dovuto sostituire le istituzioni ecclesiastiche chiuse ed esclusivistiche. Il tipo di lavoro svolto al C.O.R. si ispirava al criterio dell’apertura; esso rispondeva alla concezione di Capitini della vita religiosa come “formazione quotidiana’: risultante dal continuo approfondimento e revisione dei propri principi, mediante l’ascolto e il dialogo con gli altri, l’apertura al contributo di tutti. Il principio del C. O.R. era infatti la massima libertà nell’esposizione e discussione dei temi, e la massima apertura nell’accoglienza di qualsiasi persona.
  42. É propria di Capitini la concezione della religione come “libera aggiunta”: offerta libera e gratuita della propria persuasione, immissione del proprio contributo pratico come fattore di arricchimento nella realtà circostante, nell’esclusione di ogni pretesa di ‘conversione’, nell’apertura all’accoglienza dei contributi altrui. Anche su piani diversi da quello religioso, l”‘aggiunta” ha il significato di proposta aliena dall’imposizione.
  43. CAPITINI, Teismo e compresenza, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, III, V, 1, Pisa, 1975, p.367.
  44. CAPITINI, Elementi di un’esperienza religiosa, II ediz., Bari, Laterza 1947,p.13.
  45. Ivi, p.35.
  46. Ivi, p.53.
  47. Ivi, p.35.
  48. Ivi, p.40.
  49. CAPITINI, Il potere di tutti, cit., p.288.
  50. CAPITINI, Religione aperta, cit., pp.20-21.
  51. CAPITINI, Il potere di tutti, cit., pp.385-386.
  52. ZARRI ADRIANA, É più facile che un cammello… , Torino, Gribaudi 1975, p.130.
  53. DOLCI DANILO, Creatura di creature, Milano, Feltrinelli 1979, p.76.
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