L’”Altro” Secondo Paul Ricoeur

RICOEUR P., Sè come un altro, Jaca Book, Milano 1993, pp. 495 (ultima ristampa 2020)

L’ ermeneutica del sè

In “Sè come un altro”, Ricoeur sottopone ad esame lo statuto del soggetto, confrontandosi con gli esiti più rilevanti della riflessione filosofica antica e contemporanea. L’intenzione dell’opera è dichiarata dall’autore nella Prefazione: “far risaltare il primato della mediazione riflessiva sulla posizione immediata del soggetto”.

Il testo, infatti, sviluppa un itinerario che perviene a dimostrare la necessità della mediazione alla costituzione del soggetto. L’analisi della struttura e delle manifestazioni del sè, attesta l’imprescindibile deviazione attraverso l’esteriorità, che si impone ogni qualvolta l’io tenta di identificarsi.

L’io non può prescindere dal suo rapporto col mondo e col tu. Ad esso non è attribuibile il carttere dell’assolutezza.

L’oggettività e l’ alterità entrano essenzialmente nel movimento di costruzione e di riconoscimento dell’identità, sono implicate dalla sua posizione.

L’Altro non può essere considerato soltanto come la contropartita del Medesimo, ma “appartiene alla costituzione intima del suo senso”. A tutti i livelli dell’esperienza pratica e conoscitiva, l’alterità si rivela costitutiva dell’ipseità.

Fra ipseità ed alterità sussiste un rapporto di reciproca implicazione. L’altro inerisce al sè, il sè implica l’altro, al punto tale da non lasciarsi pensare senza di esso, da trapassare in esso (il come del titolo va interpretato nel senso forte di implicanza: sè in quanto altro). La consistenza del sè postula il rapporto con l’altro.

La congiunzione essenziale dell’identità con l’alterità è la tesi sviluppata nel corso dei dieci studi che compongono l’opera (ognuno ha una propria completezza). Essa emerge da una ricognizione analitica delle molteplici espressioni dell’identità sul piano fenomenologico.

A tale procedimento di analisi-interpretazione Ricoeur assegna il nome di “ermeneutica del sé”. Complessivamente, questa si configura come un “andirivieni” fra le opposte valenze del sè, che approda ad una concezione dialettica dell’identità, dell’alterità e del loro rapporto.

Fedele allo statuto dell’ermeneutica, quale “filosofia della deviazione”, Ricoeur sviluppa la riflessione attraverso cerchi concentrici di analisi.

Questi prendono ad oggetto i diversi livelli in cui si esplica la mediazione fra identità e alterità: linguistico, pratico, narrativo, etico-politico.

Contestualmente, emergono e si articolano tre problematiche: la deviazione della riflessione attraverso l’analisi, la dialettica dell’ipseità e della medesimezza, la dialettica dell’ipseità e dell’ alterità.

Oltre le “filosofie del soggetto”

Preoccupazione prioritaria dell’ermeneutica del sè è prendere le distanze dalle “filosofie del soggetto”. A tale categoria Ricoeur ascrive tutte le filosofie che formulano il soggetto in prima persona, identificano il con l’io, sia che ne facciano l’apologia, sia che ne proclamino la crisi.

Nel loro opporsi, esse sottopongono il soggetto a un ritmo alterno di sopravvalutazione o di sottovalutazione, che impedisce l’emergere delle sue vere potenzialità.

Radice di tale oscillazione è l’ambizione fondazionale connessa alla posizione assoluta del soggetto.

Paradigmatica, in tal senso, risulta la posizione di Cartesio. Il Cogito rappresenta nel grado massimo la pretesa del soggetto di porsi come fondamento ultimo. Atto costitutivo dell’identità è l’autoposizione del soggetto attraverso la riflessione sul proprio dubbio.

La conoscenza di sè emerge dalla negazione delle cose, l’autocoscienza è connessa alla sospensione del mondo esterno. All’origine dell’identità sta, dunque, un’operazione di rimozione dell’alterità, che non potrà più venire recuperata.

Il dubbio iperbolico riduce il soggetto al pensiero, lo assegna ad una identità astratta, priva di ogni determinazione storica ed esperienziale. Ad onta della sua pretesa di porsi come fondamento della realtà, tale “soggettività disancorata” riesce a malapena a giustificare se stessa, in un’autofondazione sterile, da cui non procede alcuna oggettività.

Per tale motivo, Ricoeur può affermare che “la crisi del Cogito è contemporanea alla sua posizione”: l””infermità” del Cogito è intrinseca alla sua ambizione di fondazione ultima.

Tale infermità è portata al suo punto di rottura nella figura del “Cogito spezzato”, che Nietzsche rappresenta nel modo più emblematico. Ricoeur interpreta il nichilismo nietzschano come una radicalizzazione del dubbio cartesiano attraverso la sua estensione al soggetto pensante.

La critica nietzschana del Cogito verte sulla “fenomenalità del mondo interno”: nella mancanza assoluta di criteri oggettivi di verità, neppure il mondo interiore può sottrarsi al gioco dell’ interpretazione e dell’illusione. Il pensiero risulta da un processo di astrazione. Il soggetto è frutto di una sostanzializzazione arbitraria, l’io equivale ad “un’interpretazione di tipo causale”.

Nell’alternativa del Cogito e dell’anti-Cogito, il soggetto risulta di volta in volta “esaltato al rango di prima verità o abbassato al rango di illusione somma”, rimanendo àtopos, “senza un posto sicuro nel discorso”.

L’ermeneutica del sè si preoccupa di rimuovere la causa di tale ambiguità: la pretesa di fondazione; si incarica di “interdire al sè di occupare il posto del fondamento”.

Il sè e la mediazione

La destituzione della pretesa fondazionale del soggetto è connessa alla negazione del suo carattere immediato. L’ ermeneutica ricoeuriana propugna lo statuto indiretto della posizione del sè.

Il sè non è il dato primo e originario, suscettibile di apprensione intuitiva. La coscienza di sè è secondaria rispetto alla coscienza di qualche cosa, emerge dalla ricostruzione delle manifestazioni del sè nel quadro dell’esperienza.

La determinazione dello statuto del soggetto passa attraverso l’ analisi delle sue espressioni. L’io si comprende mediante l’”esegesi della sua vita”, interpretando i segni lasciati dalle sue molteplici modalità di interazione con il contesto cui appartiene.

Tale riduzione dell’ego alla sfera di appartenenza segna già un primo passo verso la rivalutazione dell’alterità: significa, infatti, spiazzare la soggettività dal primo posto, sottrarle il “potere sovrano”, negare che ad essa pertenga una funzione fondativa e costitutiva.

Il soggetto, lungi dall’essere il fondamento della realtà, dipende dalla realtà per la sua stessa pensabilità, presuppone il rapporto con la realtà come condizione della propria appartenenza a se stesso.

La coscienza di sè dipende dal condizionamento di tutto un prius, un orizzonte di pre-comprensione, costituito dalla situazione, la tradizione, le relazioni con gli altri. E’ questo un primo senso in cui l’alterità inerisce alla costituzione dell’identità.

La riflessione consiste nell’atto di ritorno su di sè mediante il quale il soggetto ritrova il principio unificatore dell’identità, dopo aver percorso, mediante l’analisi, le molteplici forme della propria esplicazione.

Il soggetto che si riconosce solo attraverso le proprie relazioni, non viene più designato “io”, ma “sè”. Il carattere riflessivo del si contrappone al carattere immediato dell’io. La distinzione fra ego e equivale alla differenza fra autoposizione e mediazione.

Ipseità e medesimezza

La dialettica tra analisi e riflessione trova dispiegamento in particolare nei primi quattro saggi, in cui Ricoeur elabora la tematica dell’ identità sul piano linguistico e sul piano pratico, avvalendosi dei contributi della filosofia analitica di lingua inglese (Strawson, Austin, Searle, Anscombe, Davidson). Analizzando i meccanismi del linguaggio, si constata come già le procedure logiche di individualizzazione implichino il riferimento all’alterità. Nella designazione del sè, entra l’altro, nella misura in cui la distinzione (identificazione di un’ entità irripetibile) emerge dal confronto.

La filosofia del linguaggio mette a disposizione un duplice approccio alla persona, sul piano della semantica e su quello della pragmatica: per riferimento identificante (la persona è l’oggetto di discorso, ‘ciò’ di cui si parla), per autodesignazione (la persona è il soggetto dell’enunciazione, dei propri atti di discorso).

Entrambe le forme di designazione rinviano alla situazione di interlocuzione, attestano quindi la reciprocità tra io e tu, la correlazione fra il sè e l’altro. La logica del riferimento dimostra che l’attribuzione all’altro è inseparabile dall ‘attribuzione a sè, per cui “non si dà io solo al punto di partenza”. L’enunciazione è per sua natura un “fenomeno bipolare”: implica il rapporto io-tu.

La teoria analitica dell’azione, nel suo aspetto semantico, illustra come non sia possibile rispondere alla questione “chi?” senza “deviare” attraverso le questioni “che cosa? perchè?”: la determinazione del soggetto agente non può prescindere da un’analisi preliminare del contenuto e dell’intenzione dell’azione.

Sul piano pragmatico, l’autodesignazione dell’agente appare inseparabile dall’ascrizione operata da un altro.

Nel primo gruppo di analisi, comincia a farsi strada la distinzione fra le due principali significazioni che Ricoeur annette all’identità: la medesimezza (corrispondente al latino idem) e l’ ipseità (corrispondente al latino ipse).

Caratteristica della medesimezza è la permanenza nel tempo, mentre l’ipseità “non implica alcuna asserzione circa un preteso nucleo immutabile della personalità”. La medesimezza si definisce attraverso il riferimento spazio-temporale: una cosa può essere identificata come la medesima quando resta uguale in luoghi e tempi differenti.

La dialettica dell’ipseità e della medesimezza attinge il suo pieno sviluppo nel quadro della “teoria narrativa”.

L’identità narrativa

Nel quinto studio, Ricoeur affronta direttamente la problematica dell’identità personale, confrontandosi con le analisi sull’identità di Locke , Hume, Parfit.

Qui mette a tema la differenza specifica fra medesimezza ed ipseità, simbolizzando la prima nel fenomeno del carattere, la seconda nella nozione etica di promessa.

Il carattere, in quanto “insieme delle note distintive che consentono di reidentificare un individuo umano come il medesimo”, fa capo alla modalità temporale della perpetuazione e rappresenta il “ricoprimento” dell’ipse da parte dell’idem, ovvero l’indistinzione fra medesimezza ed ipseità. La promessa, in quanto impegno di fedeltà che prescinde dai cambiamenti temporali, rinvia alla modalità etica del mantenersi, alludendo ad una possibile autonomia dell’ ipse rispetto all’ idem, rinviando all ‘affrancamento dell ‘ ipseità dalla medesimezza.

La dialettica ipseità-medesimezza assume quindi un andamento disgiuntivo: dall ‘indistinzione alla dissociazione.

Una funzione di mediazione fra i due poli dell’identità è esercitata dalla teoria narrativa. Questa ha il merito di articolare l’identità personale nella dimensione temporale.

L’operazione narrativa sviluppa un concetto di identità dinamica, il quale concilia l’identità e la diversità. Nel racconto, la determinazione dei caratteri e lo sviluppo dell’intreccio procedono parallelamente, generandosi l’una dall’altro. Tale procedimento segnala la natura storico-temporale dell’identità personale.

Alla correlazione fra storia e personaggio corrisponde la correlazione fra persona ed esperienze. La persona non è un’entità astratta: ha una storia, è la sua propria storia. L’individuo si fa attraverso le sue esperienze. L’unità della vita fa l’unità della persona.

L’analisi narrativa caratterizza la nozione di ipseità in termini di appartenenza: essenza dell’ipseità è l’”irriducibilità del proprio”, il rapporto di possesso fra la persona e il suo vissuto, le sue “esperienze” (pensieri, azioni, passioni).

Vivere bene con e per l’altro

Negli studi settimo, ottavo e nono, posti all’insegna dell’etica e della morale, trova sviluppo filosofico adeguato la dialettica dell’identità e dell’alterità. E’ infatti sul piano etico-morale che l’essere-affetto del sè ad opera dell’altro raggiunge la massima evidenza: l’autonomia del sè appare intimamente connessa alla sollecitudine per il prossimo e alla giustizia per ogni uomo.

La definizione stessa dell’etica, proposta da Ricoeur (“vivere bene con e per l’altro all’interno di istituzioni giuste”), non è pensabile al di fuori della connessione identità-alterità.

L’etica aristotelica suggerisce l’esistenza di un rapporto di reciproca implicazione fra stima di sé e sollecitudine. Per essere “amici di sé”, secondo il concetto di philautìa, bisogna già essere entrati in una relazione di amicizia con l’altro, nella misura in cui questo è il tramite necessario della propria esplicazione.

L’amicizia, inoltre, per sua stessa natura, implica la nozione di reciprocità. Nel rapporto di amicizia, ciascuno ama l’altro per quello che egli è per se stesso ed ama in se stesso e nell’altro la parte migliore. La con

ciliazione fra amore di sè e amore dell’altro è mediata dall’amore del bene.

Attraverso l’idea di mutualità, l’amicizia è contigua alla giustizia. Questa è caratterizzata dall’istanza dell’uguaglianza e trova nelle istituzioni il suo punto di applicazione.

L’esigenza dell’uguaglianza chiama in causa la moralità, impone il passaggio dalla categoria del buono a quella dell’obbligatorio.

La struttura dell’interazione distingue fra i due poli del fare e del subire: implica quindi una dissimmetria fondamentale fra l’ agente e il paziente. Il potere esercitato da una volontà sull’altra rappresenta la radice della violenza.

La morale si costituisce come replica alla violenza. Mira all’ equiparazione di agente e paziente, attraverso l’enunciazione di norme (dalla regola d’oro agli imperativi kantiani), che prescrivono il ristabilimento della reciprocità. La reciprocità è quindi l’essenza della moralità.

L’analisi dell’imperativo kantiano rivela inoltre come nel cuore stesso dell’asserzione di autonomia si insedi l’affezione da parte dell ‘alterità. L ‘autonomia riveste essenzialmente una dimensione dialogica, condensata nella prescrizione di “trattare l’umanità come fine”.

La traiettoria che va dall’etica all’imperativo, prosegue fino alla scelta morale in situazione. La convinzione si produce al termine di un conflitto di doveri, che impone nello stesso tempo il confronto con la re

gola e con la situazione. La pretesa universalistica, connessa alle regole morali, non può non confrontarsi con i valori positivi afferenti ai contesti storici e comunitari di effettuazione di quelle regole.

Un’autonomia solidale con la regola di giustizia e con la regola di reciprocità non può più essere un’autonomia “autosufficiente”: dev’essere coniugata con la responsabilità.

Polisemia dell’alterità

Nel decimo studio, Ricoeur sviluppa l’analisi sul piano ontologico. Tira le fila del discorso svolto fino a questo punto, al fine di delineare i tratti di un’ontologia del sè che renda conto della sua correlatività essenziale all’altro. La dialettica del Medesimo e dell’Altro, inaugurata da Platone nei dialoghi metafisici, viene ricomposta a misura dell’ermeneutica del se stesso e del suo altro.

In primo luogo, sullo sfondo della tradizione aristotelica, la possibilità di un’ontologia dell’ipseità viene messa in relazione con le categorie di atto e potenza. L’agire umano si staglia su “un fondo di essere, ad un tempo potente ed effettivo”, che rappresenta la condizione della sua esplicazione. L’essere del sè è in connessione con un contesto, a partire da cui esso può essere detto agente.

Sulla scorta anche delle analisi heideggeriane, viene ribadita la necessaria correlazione fra sè e mondo. “L’essere del sè presuppone la totalità di un mondo che è l’orizzonte del suo pensare, del suo fare, del suo sentire – in breve, della sua cura”.

In secondo luogo, percorsa lungo i primi nove studi la polisemia dell’identità, viene proposta una “polisemia dell’alterità” che le corrisponda e la integri.

L ‘alterità non è riducibile a termine di paragone. L’Altro non può essere considerato semplicemente come il contrario del Medesimo, ma dispiega una pluralità di significati, ognuno dei quali richiama una specifica modalità di “affezione” del sè.

Sul piano fenomenologico, l’alterità si offre al soggetto attraverso l’esperienza della “passività”. Con tale termine Ricoeur designa l’ “affezione del sè ad opera dell’altro”.

L’altro affetta la comprensione e la costituzione del sè a tutti i livelli, ma è possibile individuare tre luoghi in cui la passività riveste tratti specifici: il corpo proprio, la relazione di intersoggettività, la coscienza. La passività-alterità inerisce in modo essenziale all’esperienza del corpo, al rapporto interpersonale, all’esercizio della coscienza.

Il corpo proprio designa tutta la sfera di passività “intima”. La “carne” (nozione husserliana) è la più prossima di tutte le cose, rappresenta “l’originariamente mio”. Tuttavia, essa è anche il tramite del rapporto col mondo: è il polo di gravitazione del subire, sfera di incidenza della sofferenza. L’ipseità implica un’alterità propria, di cui la carne è il supporto.

La relazione intersoggettiva sollecita ad una revisione delle figure di alterità, alla determinazione di una “concezione incrociata dell’alterità”, che renda giustizia nello stesso tempo alla stima di sè ed alla responsabilità per l’altro.

Il modello husserliano dell’appresentazione per “presa analogizzante” si configura come un tentativo di “costituire l’altro in e a partire dalla sfera del proprio”. Esso approda a concepire l’altro come duplica

zione del sè, rappresentandolo come alter ego.

Il movimento dall’ego all’alter ego conserva una priorità nella dimensione gnoseologica. Sul piano etico, esso incrocia il movimento inverso dall’altro a me. In tal senso, Lèvinas rappresenta la concezione più estrema: un’alterità identificata tout-court con l’esteriorità’ è il corrispettivo di un’identità definita in termini di separazione. Proprio in forza della sua “trascendenza”, l’alterità stabilisce la relazione etica: dall’ “oltre” della sua assolutezza, l’altro impone il rispetto della sua autonomia, “ingiunge” la giustizia fino alla “sostituzione”.

Tale esposizione del sè sul piano etico, implica il rischio dello svuotamento. E’ quindi necessario “ritenere come dialetticamente complementari il movimento dal Medesimo verso l’Altro e quello dall’Altro verso il Medesimo… nella misura in cui l’uno si dispiega nella dimensione gnoseologica del senso, l’altro in quella etica dell’ingiunzione”.

L’esperienza della coscienza implica una modalità specifica di passività. La coscienza è infatti il luogo dell’ “ingiunzione”: la sfera in cui si struttura il rapporto del sè con un altro a lui superiore, eppure presente nel suo intimo. Nella coscienza si esplica il richiamo alla vita etica, la convocazione del sè ad opera dell’altro. La coscienza è la voce dell’Altro all’interno del sè.

L’alterità di quest’Altro può essere determinata sia in senso antropologico che teologico. La riflessione filosofica non è in grado di dissipare l’ambiguità inerente lo statuto dell’Altro nel fenomeno della coscienza; è, anzi, suo compito preservare tale equivocità. Su questa “aporia dell’Altro” si arresta l’analisi ricoeuriana.

L’altro necessario

L’ermeneutica del sè di cui Ricoeur traccia le coordinate in Sè come un altro, ha una forte valenza etica: offre lo spunto per fecondi sviluppi in ordine ad una determinazione sempre più positiva del rapporto identità-alterità ed orienta a nuove applicazioni sulla via maestra di un’etica della nonviolenza.

Suo merito fondamentale è quello di contribuire ad una rivalutazione della nozione di alterità, equiparando lo statuto dell’altro a quello del sé. L’altro non è più subordinato alla categoria di negatività (l’altro come l’opposto, il “negativo” del sé), ma è recuperato e valorizzato nella dinamica della correlazione (l’altro come il corrispettivo del sè).

Nella misura in cui l’altro ha lo stesso valore

del sè, il diverso ha la stessa dignità dell’identico: è aperta la strada alla convivialità, all’accoglienza e alla valorizzazione delle differenze.

L’ermeneutica ricoeuriana ha inoltre il pregio di assegnare al soggetto un “luogo proprio”, che gli consente di consistere saldamente in se stesso e nello stesso tempo di relazionarsi in modo costruttivo con l’altro da sè, sottraendosi all’oscillazione fra esaltazione e umiliazione cui lo condanna la logica del Cogito.

Solo un’oggettiva ed equilibrata valutazione delle risorse del soggetto consente di valorizzare appieno le sue potenzialità, evitando illusioni opposte di onnipotenza o di svuotamento. Tale operazione di discernimento rientra a pieno titolo fra i compiti di un filosofare sobrio, utile all’uomo nella sua quotidianità, impegnato a prendere correttamente le misure dell’umano, al di là dell’esaltazione e della disperazione.

Inoltre, l’analisi di Ricoeur individua un piano di integrazione tra affermazione di sè ed affermazione dell’altro, delineando una dialettica del possesso e dello spossessamento, della cura di sè e della dedizione all’altro.

La reciproca implicanza fra ipseità ed alterità vieta di rimuovere uno dei due poli. Si rendono in tal modo impossibili gli opposti unilateralismi: il rifiuto dell’altro tramite la chiusura in se stessi (egocentrismo), la dedizione all’altro fino al proprio annichilimento (abnegazione).

Valorizzazione di sè e valorizzazione dell’altro non si escludono, ma si implicano a vicenda. Il possesso di sè è il necessario presupposto del dono di sè. La dedizione è la logica conseguenza dell’ appartenenza a se stessi, del raggiunto equilibrio fra autonomia e responsabilità.

Infine, la dialettica “incrociata” del sè e dell’altro ha il merito di salvare sia l’uguaglianza che la differenza. Essa, infatti, garantisce contemporaneamente la relazione e la distinzione. La relazione esige che i due termini entrino in rapporto conservando ognuno la propria autonomia.

Sono, in tal modo, individuati i presupposti per stabilire l’unità nella diversità, perchè ogni essere possa trovare il pieno dispiegamento di sé nella dedizione.

Pubblicato nel n° 107 della Rivista di Teologia Morale, Edizioni Dehoniane, Bologna, luglio-settembre 1995

L’altro inerisce al sè

RICOEUR P., Sè come un altro, Jaca Book, Milano 1993, pp. 495 (ultima ristampa 2020)

L’ ermeneutica del sè  

In “Sè come un altro”, Ricoeur sottopone ad esame lo statuto del soggetto, confrontandosi con gli esiti più rilevanti della riflessione filosofica antica e contemporanea. L’intenzione dell’opera è dichiarata dall’autore nella Prefazione: “far risaltare il primato della mediazione riflessiva sulla posizione immediata del soggetto”.

Il testo, infatti, sviluppa un itinerario che perviene a dimostrare la necessità della mediazione alla costituzione del soggetto. L’analisi della struttura e delle manifestazioni del sè, attesta l’imprescindibile deviazione attraverso l’esteriorità, che si impone ogni qualvolta l’io tenta di identificarsi.

L’io non può prescindere dal suo rapporto col mondo e col tu. Ad esso non è attribuibile il carttere dell’assolutezza.

L’oggettività e l’ alterità entrano essenzialmente nel movimento di costruzione e di riconoscimento dell’identità, sono implicate dalla sua posizione.

L’Altro non può essere considerato soltanto come la contropartita del Medesimo, ma “appartiene alla costituzione intima del suo senso”. A tutti i livelli dell’esperienza pratica e conoscitiva, l’alterità si rivela costitutiva dell’ipseità.

Fra ipseità ed alterità sussiste un rapporto di reciproca implicazione. L’altro inerisce al sè, il sè implica l’altro, al punto tale da non lasciarsi pensare senza di esso, da trapassare in esso (il come del titolo va interpretato nel senso forte di implicanza: sè in quanto altro). La consistenza del sè postula il rapporto con l’altro.

La congiunzione essenziale dell’identità con l’alterità è la tesi sviluppata nel corso dei dieci studi che compongono l’opera (ognuno ha una propria completezza). Essa emerge da una ricognizione analitica delle molteplici espressioni dell’identità sul piano fenomenologico.

A tale procedimento di analisi-interpretazione  Ricoeur assegna il nome di “ermeneutica del sé”. Complessivamente, questa si configura come un “andirivieni” fra le opposte valenze del sè, che approda ad una concezione dialettica dell’identità, dell’alterità e del loro rapporto.

Fedele allo statuto dell’ermeneutica, quale “filosofia della deviazione”, Ricoeur sviluppa la riflessione attraverso cerchi concentrici di analisi.

Questi prendono ad oggetto i diversi livelli in cui si esplica la mediazione fra identità e alterità: linguistico, pratico, narrativo, etico-politico.

Contestualmente, emergono e si articolano tre problematiche: la deviazione della riflessione attraverso l’analisi, la dialettica dell’ipseità e della medesimezza, la dialettica dell’ipseità e dell’ alterità.

Oltre le “filosofie del soggetto”

Preoccupazione prioritaria dell’ermeneutica del sè è prendere le distanze dalle “filosofie del soggetto”. A tale categoria Ricoeur ascrive tutte le filosofie che formulano il soggetto in prima persona, identificano il con l’io, sia che ne facciano l’apologia, sia che ne proclamino la crisi. 

Nel loro opporsi, esse sottopongono il soggetto a un ritmo alterno di sopravvalutazione o di sottovalutazione, che impedisce l’emergere delle sue vere potenzialità.

Radice di tale oscillazione è l’ambizione fondazionale connessa alla posizione assoluta del soggetto.

Paradigmatica, in tal senso, risulta la posizione di Cartesio. Il Cogito rappresenta nel grado massimo la pretesa del soggetto di porsi come fondamento ultimo. Atto costitutivo dell’identità è l’autoposizione del soggetto attraverso la riflessione sul proprio dubbio. 

La conoscenza di sè emerge dalla negazione delle cose, l’autocoscienza è connessa alla sospensione del mondo esterno. All’origine dell’identità sta, dunque, un’operazione di rimozione dell’alterità, che non potrà più venire recuperata.

Il dubbio iperbolico riduce il soggetto al pensiero, lo assegna ad una identità astratta, priva di ogni determinazione storica ed esperienziale. Ad onta della sua pretesa di porsi come fondamento della realtà, tale “soggettività disancorata” riesce a malapena a giustificare se stessa, in un’autofondazione sterile, da cui non procede alcuna oggettività.

Per tale motivo, Ricoeur può affermare che “la crisi del Cogito è contemporanea alla sua posizione”: l””infermità” del Cogito è intrinseca alla sua ambizione di fondazione ultima.

Tale infermità è portata al suo punto di rottura nella figura del “Cogito spezzato”, che Nietzsche rappresenta nel modo più emblematico. Ricoeur interpreta il nichilismo nietzschano come una radicalizzazione del dubbio cartesiano attraverso la sua estensione al soggetto pensante.

La critica nietzschana del Cogito verte sulla “fenomenalità del mondo interno”: nella mancanza assoluta di criteri oggettivi di verità, neppure il mondo interiore può sottrarsi al gioco dell’ interpretazione e dell’illusione. Il pensiero risulta da un processo di astrazione. Il soggetto è frutto di una sostanzializzazione arbitraria, l’io equivale ad “un’interpretazione di tipo causale”.

Nell’alternativa del Cogito e dell’anti-Cogito, il soggetto risulta di volta in volta “esaltato al rango di prima verità o abbassato al rango di illusione somma”, rimanendo àtopos, “senza un posto sicuro nel discorso”.

L’ermeneutica del sè si preoccupa di rimuovere la causa di tale ambiguità: la pretesa di fondazione; si incarica di “interdire al sè di occupare il posto del fondamento”.

Il sè e la mediazione

La destituzione della pretesa fondazionale del soggetto è connessa alla negazione del suo carattere immediato. L’ ermeneutica ricoeuriana propugna lo statuto indiretto della posizione del sè.

Il sè non è il dato primo e originario, suscettibile di apprensione intuitiva. La coscienza di sè è secondaria rispetto alla coscienza di qualche cosa, emerge dalla ricostruzione delle manifestazioni del sè nel quadro dell’esperienza. 

La determinazione dello statuto del soggetto passa attraverso l’ analisi delle sue espressioni. L’io si comprende mediante l’”esegesi della sua vita”, interpretando i segni lasciati dalle sue molteplici modalità di interazione con il contesto cui appartiene.

Tale riduzione dell’ego alla sfera di appartenenza segna già un primo passo verso la rivalutazione dell’alterità: significa, infatti, spiazzare la soggettività dal primo posto, sottrarle il “potere sovrano”, negare che ad essa pertenga una funzione fondativa e costitutiva.

Il soggetto, lungi dall’essere il fondamento della realtà, dipende dalla realtà per la sua stessa pensabilità, presuppone il rapporto con la realtà come condizione della propria appartenenza a se stesso.

La coscienza di sè dipende dal condizionamento di tutto un prius, un orizzonte di pre-comprensione, costituito dalla situazione, la tradizione, le relazioni con gli altri. E’ questo un primo senso in cui l’alterità inerisce alla costituzione dell’identità.

La riflessione consiste nell’atto di ritorno su di sè mediante il quale il soggetto ritrova il principio unificatore dell’identità, dopo aver percorso, mediante l’analisi, le molteplici forme della propria esplicazione.

Il soggetto che si riconosce solo attraverso le proprie relazioni, non viene più designato “io”, ma “sè”. Il carattere riflessivo del si contrappone al carattere immediato dell’io. La distinzione fra ego e equivale alla differenza fra autoposizione e mediazione.

Ipseità e medesimezza

La dialettica tra analisi e riflessione trova dispiegamento in particolare  nei primi quattro saggi, in cui Ricoeur elabora la tematica dell’ identità sul piano linguistico e sul piano pratico, avvalendosi dei contributi della filosofia analitica di lingua inglese (Strawson, Austin, Searle, Anscombe, Davidson). Analizzando i meccanismi del linguaggio, si constata come già le procedure logiche di individualizzazione implichino il riferimento all’alterità. Nella designazione del sè, entra l’altro, nella misura in cui la distinzione (identificazione di un’ entità irripetibile) emerge dal confronto.

La filosofia del linguaggio mette a disposizione un duplice approccio alla persona, sul piano della semantica e su quello della pragmatica: per riferimento identificante (la persona è l’oggetto di discorso, ‘ciò’ di cui si parla), per autodesignazione (la persona è il soggetto dell’enunciazione, dei propri atti di discorso).

Entrambe le forme di designazione rinviano alla situazione di interlocuzione, attestano quindi la reciprocità tra io e tu, la correlazione fra il sè e l’altro. La logica del riferimento dimostra che l’attribuzione all’altro è inseparabile dall ‘attribuzione a sè,  per cui “non si dà io solo al punto di partenza”. L’enunciazione è per sua natura un “fenomeno bipolare”: implica il rapporto io-tu.

La teoria analitica dell’azione, nel suo aspetto semantico, illustra come non sia possibile rispondere alla questione “chi?” senza “deviare” attraverso le questioni “che cosa? perchè?”: la determinazione del soggetto agente non può prescindere da un’analisi preliminare del contenuto e dell’intenzione dell’azione.

Sul piano pragmatico, l’autodesignazione dell’agente appare inseparabile dall’ascrizione operata da un altro.

Nel primo gruppo di analisi, comincia a farsi strada la distinzione fra le due principali significazioni che Ricoeur annette all’identità: la medesimezza (corrispondente al latino idem) e l’ ipseità (corrispondente al latino ipse).

Caratteristica della medesimezza è la permanenza nel tempo, mentre l’ipseità “non implica alcuna asserzione circa un preteso nucleo immutabile della personalità”. La medesimezza si definisce attraverso il riferimento spazio-temporale: una cosa può essere identificata come la medesima quando resta uguale in luoghi e tempi differenti.

La dialettica dell’ipseità e della medesimezza attinge il suo pieno sviluppo nel quadro della “teoria narrativa”.

 L’identità narrativa

Nel quinto studio, Ricoeur affronta direttamente la problematica dell’identità personale, confrontandosi con le analisi sull’identità di Locke , Hume, Parfit.

Qui mette a tema la differenza specifica fra medesimezza ed ipseità, simbolizzando la prima nel fenomeno del carattere, la seconda nella nozione etica di promessa.

Il carattere, in quanto “insieme delle note distintive che consentono di reidentificare un individuo umano come il medesimo”, fa capo alla modalità temporale della perpetuazione e rappresenta il “ricoprimento” dell’ipse da parte dell’idem, ovvero l’indistinzione fra medesimezza ed ipseità. La promessa, in quanto impegno di fedeltà che prescinde dai cambiamenti temporali, rinvia alla modalità etica del mantenersi, alludendo ad una possibile autonomia dell’ ipse rispetto all’ idem, rinviando all ‘affrancamento dell ‘ ipseità dalla medesimezza.

La dialettica ipseità-medesimezza assume quindi un andamento disgiuntivo: dall ‘indistinzione alla dissociazione.

Una funzione di mediazione fra i due poli dell’identità è esercitata dalla teoria narrativa. Questa ha il merito di articolare l’identità personale nella dimensione temporale.

L’operazione narrativa sviluppa un concetto di identità dinamica, il quale concilia l’identità e la diversità. Nel racconto, la determinazione dei caratteri e lo sviluppo dell’intreccio procedono parallelamente, generandosi l’una dall’altro. Tale procedimento segnala la natura storico-temporale dell’identità personale.

Alla  correlazione fra storia e personaggio corrisponde la correlazione fra persona ed esperienze. La persona non è un’entità astratta: ha una storia, è la sua propria storia. L’individuo si fa attraverso le sue esperienze. L’unità della vita fa l’unità della persona.

L’analisi narrativa caratterizza la nozione di ipseità in termini di appartenenza: essenza dell’ipseità è l’”irriducibilità del proprio”, il rapporto di possesso fra la persona e il suo vissuto, le sue “esperienze” (pensieri, azioni, passioni).

Vivere bene con e per l’altro

Negli studi settimo, ottavo e nono, posti all’insegna dell’etica e della morale, trova sviluppo filosofico adeguato la dialettica dell’identità e dell’alterità. E’ infatti sul piano etico-morale che l’essere-affetto del sè ad opera dell’altro raggiunge la massima evidenza: l’autonomia del sè appare intimamente connessa alla sollecitudine per il prossimo e alla giustizia per ogni uomo.

La definizione stessa dell’etica, proposta da Ricoeur (“vivere bene con e per l’altro all’interno di istituzioni giuste”), non è pensabile al di fuori della connessione identità-alterità.

L’etica aristotelica suggerisce l’esistenza di un rapporto di reciproca implicazione fra stima di sé e sollecitudine. Per essere “amici di sé”, secondo il concetto di philautìa, bisogna già essere entrati in una relazione di amicizia con l’altro, nella misura in cui questo è il tramite necessario della propria esplicazione.

L’amicizia, inoltre, per sua stessa natura, implica la nozione di reciprocità. Nel rapporto di amicizia, ciascuno ama l’altro per quello che egli è per se stesso ed ama in se stesso e nell’altro la parte migliore. La conciliazione fra amore di sè e amore dell’altro è mediata dall’amore del bene.

Attraverso l’idea di mutualità, l’amicizia è contigua alla giustizia. Questa è caratterizzata dall’istanza dell’uguaglianza e trova nelle istituzioni il suo punto di applicazione. 

L’esigenza dell’uguaglianza chiama in causa la moralità, impone il passaggio dalla categoria del buono a quella dell’obbligatorio.

La struttura dell’interazione distingue fra i due poli del fare e del subire: implica quindi una dissimmetria fondamentale fra l’ agente e il paziente. Il potere esercitato da una volontà sull’altra rappresenta la radice della violenza.

La morale si costituisce come replica alla violenza. Mira all’ equiparazione di agente e paziente, attraverso l’enunciazione di norme (dalla regola d’oro agli imperativi kantiani), che prescrivono il ristabilimento della reciprocità. La reciprocità è quindi l’essenza della moralità.

L’analisi dell’imperativo kantiano rivela inoltre come nel cuore stesso dell’asserzione di autonomia si insedi l’affezione da parte dell ‘alterità. L ‘autonomia riveste essenzialmente una dimensione dialogica, condensata nella prescrizione di “trattare l’umanità come fine”.

La traiettoria che va dall’etica all’imperativo, prosegue fino alla scelta morale in situazione. La convinzione si produce al termine di un conflitto di doveri, che impone nello stesso tempo il confronto con la regola e con la situazione. La pretesa universalistica, connessa alle regole morali, non può non confrontarsi con i valori positivi afferenti ai contesti storici e comunitari di effettuazione di quelle regole.

Un’autonomia solidale con la regola di giustizia e con la regola di reciprocità non può più essere un’autonomia “autosufficiente”: dev’essere coniugata con la responsabilità.

Polisemia dell’alterità

Nel decimo studio, Ricoeur sviluppa l’analisi sul piano ontologico. Tira le fila del discorso svolto fino a questo punto, al fine di delineare i tratti di un’ontologia del sè che renda conto della sua correlatività essenziale all’altro. La dialettica del Medesimo e dell’Altro, inaugurata da Platone nei dialoghi metafisici, viene ricomposta a misura dell’ermeneutica del se stesso e del suo altro.

In primo luogo, sullo sfondo della tradizione aristotelica, la possibilità di un’ontologia dell’ipseità viene messa in relazione con le categorie di atto e potenza. L’agire umano si staglia su “un fondo di essere, ad un tempo potente ed effettivo”, che rappresenta la condizione della sua esplicazione. L’essere del sè è in connessione con un contesto, a partire da cui esso può essere detto agente.

Sulla scorta anche delle analisi heideggeriane, viene ribadita la necessaria correlazione fra sè e mondo. “L’essere del sè presuppone la totalità di un mondo che è l’orizzonte del suo pensare, del suo fare, del suo sentire – in breve, della sua cura”. 

In secondo luogo, percorsa lungo i primi nove studi la polisemia dell’identità, viene proposta una “polisemia dell’alterità” che le corrisponda e la integri.

L ‘alterità non è riducibile a termine di paragone. L’Altro non può essere considerato semplicemente come il contrario del Medesimo, ma dispiega una pluralità di significati, ognuno dei quali richiama una specifica modalità di “affezione” del sè.

Sul piano fenomenologico, l’alterità si offre al soggetto attraverso  l’esperienza della “passività”. Con tale termine Ricoeur designa l’ “affezione del sè ad opera dell’altro”.

L’altro affetta la comprensione e la costituzione del sè a tutti i livelli, ma è possibile individuare tre luoghi in cui la passività riveste tratti specifici: il corpo proprio, la relazione di intersoggettività, la coscienza. La passività-alterità inerisce in modo essenziale all’esperienza del corpo, al rapporto  interpersonale, all’esercizio della coscienza. 

Il corpo proprio designa tutta la sfera di passività “intima”. La “carne” (nozione husserliana) è la più prossima di tutte le cose, rappresenta “l’originariamente mio”. Tuttavia, essa è anche il tramite del rapporto col mondo: è il polo di gravitazione del subire, sfera di incidenza della sofferenza. L’ipseità implica un’alterità propria, di cui la carne è il supporto. 

La relazione intersoggettiva sollecita ad una revisione delle figure di alterità, alla determinazione di una “concezione incrociata dell’alterità”, che renda giustizia nello stesso tempo alla stima di sè ed alla responsabilità per l’altro.

Il modello husserliano dell’appresentazione per “presa analogizzante” si configura come un tentativo di “costituire l’altro in e a partire dalla sfera del proprio”. Esso approda a concepire l’altro come duplicazione del sè, rappresentandolo come alter ego.

Il movimento dall’ego all’alter ego conserva una priorità nella dimensione gnoseologica. Sul piano etico, esso incrocia il movimento inverso dall’altro a me. In tal senso, Lèvinas rappresenta la concezione più estrema: un’alterità identificata tout-court con l’esteriorità’ è il corrispettivo di un’identità definita in termini di separazione. Proprio in forza della sua “trascendenza”, l’alterità stabilisce la relazione etica: dall’ “oltre” della sua assolutezza, l’altro impone il rispetto della sua autonomia, “ingiunge” la giustizia fino alla “sostituzione”.

Tale esposizione del sè sul piano etico, implica il rischio dello svuotamento. E’ quindi necessario “ritenere come dialetticamente complementari il movimento dal Medesimo verso l’Altro e quello dall’Altro verso il Medesimo… nella misura in cui l’uno si dispiega nella dimensione gnoseologica del senso, l’altro in quella etica dell’ingiunzione”.

L’esperienza della coscienza implica una modalità specifica di passività. La coscienza è infatti il luogo dell’ “ingiunzione”: la sfera in cui si struttura il rapporto del sè con un altro a lui superiore, eppure presente nel suo intimo. Nella coscienza si esplica il richiamo alla vita etica, la convocazione del sè ad opera dell’altro. La coscienza è la voce dell’Altro all’interno del sè.

L’alterità di quest’Altro può essere determinata sia in senso antropologico che teologico. La riflessione filosofica non è in grado di dissipare l’ambiguità inerente lo statuto dell’Altro nel fenomeno della coscienza; è, anzi, suo compito preservare tale equivocità. Su questa “aporia dell’Altro” si arresta l’analisi ricoeuriana.

L’altro necessario

L’ermeneutica del sè di cui Ricoeur traccia le coordinate in Sè come un altro, ha una forte valenza etica: offre lo spunto per fecondi sviluppi in ordine ad una determinazione sempre più positiva del rapporto identità-alterità ed orienta a nuove applicazioni sulla via maestra di un’etica della nonviolenza.

Suo merito fondamentale è quello di contribuire ad una rivalutazione della nozione di alterità, equiparando lo statuto dell’altro a quello del sé. L’altro non è più subordinato alla categoria di negatività (l’altro come l’opposto, il “negativo” del sé), ma è recuperato e valorizzato nella dinamica della correlazione (l’altro come il corrispettivo del sè).

Nella misura in cui l’altro ha lo stesso valore

 del sè, il diverso ha la stessa dignità dell’identico: è aperta la strada alla convivialità, all’accoglienza e alla valorizzazione delle differenze.

L’ermeneutica ricoeuriana ha inoltre il pregio di assegnare al soggetto un “luogo proprio”, che gli consente di consistere saldamente in se stesso e nello stesso tempo di relazionarsi in modo costruttivo con l’altro da sè, sottraendosi all’oscillazione fra esaltazione e umiliazione cui lo condanna la logica del Cogito.

Solo un’oggettiva ed equilibrata valutazione delle risorse del soggetto consente di valorizzare appieno le sue potenzialità, evitando illusioni opposte di onnipotenza o di svuotamento. Tale operazione di discernimento rientra a pieno titolo fra i compiti di un filosofare sobrio, utile all’uomo nella sua quotidianità, impegnato a prendere correttamente le misure dell’umano, al di là dell’esaltazione e della disperazione.

Inoltre, l’analisi di Ricoeur individua un piano di integrazione tra affermazione di sè ed affermazione dell’altro, delineando una dialettica del possesso e dello spossessamento, della cura di sè e della dedizione all’altro.

La reciproca implicanza fra ipseità ed alterità vieta di rimuovere uno dei due poli. Si rendono in tal modo impossibili gli opposti unilateralismi: il rifiuto dell’altro tramite la chiusura in se stessi (egocentrismo), la dedizione all’altro fino al proprio annichilimento (abnegazione).

Valorizzazione di sè e valorizzazione dell’altro non si escludono, ma si implicano a vicenda. Il possesso di sè è il necessario presupposto del dono di sè. La dedizione è la logica conseguenza dell’ appartenenza a se stessi, del raggiunto equilibrio fra autonomia e responsabilità.

Infine, la dialettica “incrociata” del sè e dell’altro ha il merito di salvare sia l’uguaglianza che la differenza. Essa, infatti, garantisce contemporaneamente la relazione e la distinzione.  La relazione esige che i due termini entrino in rapporto conservando ognuno la propria autonomia. 

Sono, in tal modo, individuati i presupposti per stabilire l’unità nella diversità, perchè ogni essere possa trovare il pieno dispiegamento di sé nella dedizione.

Pubblicato nel n° 107 della Rivista di Teologia Morale, Edizioni Dehoniane, Bologna, luglio-settembre 1995

 

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