Hannah Arendt
L’essenza dialogica della politica
Il pensiero di Hannah Arendt è molto ricco di spunti e si presta a molteplici approfondimenti. Questo intervento intende fornire solo una prima presentazione, limitata all’esposizione dei motivi fondamentali, a partire dall’analisi di Vita activa. Verrà preso sinteticamente in considerazione l’impianto teoretico del pensiero di H. Arendt: i motivi teorici che supportano lo sviluppo del suo pensiero politico; non le forme dell’agire politico, ma le condizioni; le “categorie” del politico nell’interpretazione di H. Arendt.
L’apparenza
L’orizzonte della speculazione di H. Arendt è un orizzonte fenomenologico. Lei stessa preferiva definirsi una “fenomenologa”.
“Io non sono una filosofa, al massimo posso accettare di essere una teorica della politica, posto che all’università di New York insegno teoria della politica, ma in realtà mi considero una specie di fenomenologa” (1).
La Arendt può essere considerata una fenomenologa, non tanto nel senso accademico di seguace della fenomenologia nella versione inaugurata da Husserl (anche se la Arendt è stata un’allieva di Husserl), quanto nel senso letterale di: adesione all’apparenza, assunzione dell’apparenza.
L’ispirazione fenomenologica di H. Arendt si rivela nella asserzione della natura fenomenica del mondo, nella tesi della perfetta corrispondenza, piena aderenza fra apparenza e realtà, “coincidenza di essere e apparire”. La realtà equivale all’apparenza. “Ciò che appare è, tutto ciò che è appare”. Non si dà realtà al di fuori della (sua) manifestazione. Il fenomeno non rappresenta l’occultamento/distorsione della realtà, bensì la manifestazione della realtà, il modo in cui la realtà è, si dà.
Questo assunto è fondamentale, perchè ha delle implicazioni importanti: il rifiuto del dualismo, delle scissioni che hanno caratterizzato la tradizione di pensiero dell’occidente; rifiuto dello sdoppiamento del mondo (mondo sensibile/mondo intelligibile, corpo/mente); rifiuto della separazione fra soggetto ed oggetto (percipiente e percepito, conoscente e conosciuto (2). Queste implicazioni, che sembrano puramente teoretiche, hanno un valore altamente politico.
“In questo mondo, in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessun luogo, Essere e Apparire coincidono…Non esiste in questo mondo nulla e nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore. In altre parole, nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è, è fatto per esser percepito da qualcuno. Non l’ Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra” (3).
L’apparenza implica la pluralità. L’intersoggettività costituisce il mondo dell’apparenza. Affermare che non si dà realtà al di fuori della sua manifestazione, equivale ad affermare che non si dà realtà al di fuori del riconoscimento. La realtà dipende dal riconoscimento, dalla condivisione del riconoscimento, dall’interrelazione fra gli esseri senzienti che, nella loro duplice natura di soggetti ed oggetti, nello stesso tempo costituiscono e attestano la realtà. La coscienza individuale non è sufficiente a garantire la realtà. La realtà è garantita dalla presenza degli altri, “è garantita per ciascuno dalla presenza di tutti”.
La pluralità è imprescindibile, perchè è la condizione della realtà, la condizione dell’esistenza stessa del mondo. Una lettura fenomenologica della realtà fa emergere la pluralità come condizione fondamentale dell’esistenza umana. La pluralità è il dato fenomenico primario, originario ( “il fatto che gli uomini, non l’uomo abitano il mondo”: è l’evidenza più immediata, dato di realtà, attestato dal senso comune). La pluralità è struttura ontologica: situazione in cui siamo, modo in cui esistiamo.
La pluralità è risorsa, ma è anche problema: implica rischio (le “aporie dell’azione” corrispondono ai pericoli della pluralità). Di fronte a questo dato, si aprono due alternative, due strade possibili, che sono quelle percorse dall’uomo nel corso della storia: 1) eludere la pluralità, tentare di sottrarsi ad essa attraverso una serie di scorciatoie: tirannia e violenza appaiono quali
reductiones ad unum, tentativi di sopprimere la pluralità imponendo il dominio e la volontà di uno solo (non possono che riverlarsi inefficaci; essendo la pluralità la condizione della realtà, non può essere negata, ogni tentativo di sottrarsi ad essa si converte in impotenza 2) assumere la pluralità, assumere il rischio della pluralità. Cosa vuol dire?
Il pubblico
Costruire lo spazio pubblico, costruire la città, fare polis (potremmo dire “fare politica”, se tale espressione non fosse tanto sovraccarica di significati da apparire scontata). H. Arendt non propone la polis greca come un modello, ben consapevole del carattere problematico e irripetibile di quella che è stata un’esperienza storica limitata nel tempo: usa il richiamo di quell’esperienza per rappresentare l’espropriazione moderna della politica ed anche per evocare i tratti del politico che, a suo avviso, ne costituiscono il senso positivo, il valore per la vita dell’uomo.
La Arendt definisce il “pubblico” come lo spazio della manifestazione e della comunicazione. Il pubblico è il luogo dell’apparenza. Il pubblico sta al privato come la luce sta all’oscurità, la rivelazione al nascondimento. Il pubblico è il luogo della rivelazione, perchè è il luogo del confronto. Consente l’emergere dell’identità, perchè rappresenta l’integrazione delle diversità, il confluire dei mondi privati in un mondo comune.
“La realtà della sfera pubblica si fonda nella presenza simultanea di innumerevoli prospettive e aspetti in cui il mondo comune si offre…L’essere visto e l’essere udito dagli altri derivano la loro importanza dal fatto che ciascuno vede e ode da una diversa posizione. Questo è il significato della vita pubblica, in confronto al quale anche la più ricca e soddisfacente vita di famiglia può offrire solo il prolungamento o la moltiplicazione della propria posizione individuale… Questo “mondo” familiare non potrà mai sostituire la realtà che scaturisce dalla somma totale degli aspetti offerti da un oggetto a una moltitudine di spettatori. Solo dove le cose possono essere viste da molti in una varietà di aspetti senza che sia cambiata la loro identità, così che quelli che sono radunati intorno a esse sanno di vedere la stessa cosa pur in una totale diversità, la realtà del mondo può apparire certa e sicura” (4).
Il valore del pubblico è determinato dall’interazione delle diverse posizioni, dalla compresenza delle prospettive. Esso è il luogo dell’esplicazione della pluralità, e in quanto tale dell’affermazione dell’identità: la sfera in cui l’uomo realizza pienamente se stesso, attinge la propria perfezione, esplica le proprie possibilità più alte.
L’identità non è in contraddizione con la pluralità, ma scaturisce da essa. Allo stesso modo in cui la realtà risulta dalla somma degli aspetti, l’identità emerge dalla composizione delle diversità.
Tale natura plurale-pluralistica dell’identità è una nozione che ha un valore politico dirompente. Implica il riconoscimento del carattere necessario, irrinunciabile e del valore radicalmente positivo della diversità.
Pluralità (necessità della diversità) è più che pluralismo (tolleranza della diversità). La pluralità fenomenologica determina una molteplicità prospettica, che rappresenta per l’uomo la principale ed esclusiva via d’accesso alla realtà, che sola garantisce l’adeguatezza delle interpretazioni del mondo (la soppressione della pluralità, la riduzione ad un’unica prospettiva o punto di vista equivale alla “fine del mondo”). Nell’azione politica, tale molteplicità prospettica va assolutamente salvaguardata.
La mediazione
Lo strumento atto a salvaguardare la molteplicità è la comunicazione dialogica. Il pubblico è lo spazio della comunicazione. La polis e essenzialmente, principalmente “comunità dialogante”. L’attività principale degli uomini nella polis è il dialogare, l’affrontare i problemi comuni e il cercare di risolverli attraverso la condivisione della parola.
“Nella polis, il senso della politica, ma non il suo fine, è che gli uomini comunichino in libertà, al di là di violenza, coercizione e dominio, come eguali che soltanto in situazioni di emergenza, e cioè in tempo di guerra, comandavano e obbedivano, ma che altrimenti regolavano ogni faccenda attraverso il dialogo e la reciproca persuasione.
Il politico, nel senso greco, è dunque incentrato sulla libertà; una libertà intesa in negativo come non-essere-dominati e non-dominare, e, in positivo, come uno spazio che può essere creato solo da molti e nel quale ognuno si muove tra suoi pari. Senza questi altri, che sono miei pari, non esiste libertà” (5).
Il dialogo presuppone ed esige l’uguaglianza, la parità. La polis è la comunità dei pari. Emerge qui un tratto del politico, che, secono la Arendt, trascende la contingenza dell’evento storico ed assume un valore assoluto: la natura comunicativa, dialogica della politica. Politica è libera comunicazione tra uguali.
L’uguaglianza politica non consiste nell’uniformità (come avviene nella moderna società di massa, ulteriore fenomeno di “riduzione ad uno”, caratterizzata dalla soppressione delle individualità). L’uguaglianza che si addice alla sfera pubblica è necessariamente un’ “uguaglianza di ineguali”, non mortifica l’identità, ma poggia su di essa: presuppone/valorizza l’unicità; interpreta la condizione fenomenologica della pluralità, che “ha il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione”. E’ un’uguaglianza che rispetta ed esalta l’individualità, si fonda sulla distinzione, perchè non è un’uguaglianza “naturale”, ma un’uguaglianza “attiva”: si “fa” nella relazione, nella comunità (“…uguaglianza di ineguali, che devono essere resi uguali in certi aspetti e per specifici fini”).
Nell’azione politica, l’omogeneità si produce rispetto ad un fine, emerge dall’accordo, è perseguita rispetto ad un obiettivo comune. L’uguaglianza è frutto di accordo, risultato di ‘mediazione’. In tale mediazione consiste l’attività politica. Il pensiero politico si definisce quale “pensiero rappresentativo e discorsivo”, ovvero capacità di comprendere le posizioni altrui, considerare i diversi punti di vista, guardare le cose da ogni possibile prospettiva (qualcosa di analogo al “pensiero allargato” o “mentalità ampliata”, prospettato da Kant nella Critica del giudizio).
“Il pensiero politico è rappresentativo. Io mi formo una opinione considerando una data questione da differenti punti di vista, rendendo presente alla mia mente le posizioni di coloro che sono assenti… Quante più posizioni altrui ho presente nella mia mente mentre sto ponderando una data questione, e quanto meglio posso immaginare come sentirei e penserei se fossi al posto di queste persone, tanto più forte sarà la mia capacità di pensiero rappresentativo e tanto più valide saranno le mie conclusioni finali, la mia opinione” (6).
“Pensiero rappresentativo” è più che rispetto del punto di vista dell’altro (libertà di opinione): è l‘assunzione in sè della molteplicità prospettica.
La politica è lo spazio della mediazione, a patto di attribuire a tale termine non il significato di “compromesso” (contaminazione delle posizioni, che porta al loro dissolvimento), bensì quello di “condivisione” (modificazione ed arricchimento della propria posizione attraverso l’accoglimento dei contributi altrui).
- Intervista del 1964, in Parlare di Hannah Arendt, due conversazioni di Laura Boella, Università delle donne “Simone de Beauvoir”, Brescia 199
- Cfr. ARENDT H., La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 99-190.
- Ibidem, p. 99.
- ARENDT H., Vita activa, Bompiani, Milano 1991, pp. 42-43.
- ARENDT H., Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995, p. 30.
- ARENDT H., Verità e politica, Boringhieri, Torino 1995, p. 48.
L’essenza dialogica della politica
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