Danza come Cura di Sè

“Disce gaudere”

Seneca

La cura di sè

La “cura di sé” è una categoria familiare a quanti operano nel campo del benessere, a qualsiasi scuola di pensiero e metodologia d’intervento si richiamino. Accomuna tutta una serie di pratiche (di natura scientifica od empirica) volte a stimolare lo sviluppo della crescita individuale verso obiettivi di equilibrio e autorealizzazione. Comun denominatore dei diversi approcci al counseling, rappresenta la specificità dell’intervento stesso.

Chi si rivolge a un professionista dell’aiuto è spinto dall’esigenza fondamentale di “ritrovare se stesso”, squarciare il velo del disagio per individuare ed iniziare a percorrere la “propria via” alla salute.

Al di là del revival “new age”, la “cultura di se” ha radici profonde ed autorevoli nelle sapienze di ogni tempo e latidudine.

E’ superfluo ricordare quanto i grandi approcci al confine tra filosofia e religione (taoismo, buddismo…) abbiano al centro il riscatto dell’individuo in un “piano universale” di salvezza.

Agli esordi della civiltà occidentale, il “conosci te stesso” è archetipo della cultura classica, che fonda una particolare etica della “misura” sulla dialettica fra senso del limite e tensione metafisica. Nell’età ellenistica, la ricerca filosofica si declina in ideologie che pongono l’accento sulla necessità di “prendersi cura di se” (heautou epimelesthai), attraverso pratiche quotidiane di autocoscienza ed autoformazione.

Il termine epimeleia si riferisce a un’area semantica variegata. “Si parla di epimeleia per indicare le attività del padrone di casa, il ministero del principe nei confronti dei sudditi, le cure da prestare a un malato o a un ferito, o le onoranze da tributare agli dei o ai defunti” (1). Evoca quindi i concetti di “applicazione”, “governo”, “devozione”. Per i romani le curae sono le preoccupazioni, nel duplice senso di attenzioni dedicate a qualcosa o qualcuno e di brighe, affanni.

La cura si applica ad una malattia, o quanto meno a un disagio.

Oggi il male di vivere ho incontrato

Il disagio principale dell’esistenza umana è l’esistenza stessa. Non in senso assoluto naturalmente, ma in senso relativo.

La pesantezza della vita è l’altro lato, l’”ombra” del suo fulgore, coessenziale allo stesso quanto lo yin allo yan.

Il male è intrinseco al vivere, tanto quanto il bene, per certi versi è lo stesso vivere, col suo carico di avversità, delusioni, “cure”, cui corrispondono immancabilmente gioie, piaceri, soddisfazioni.

La vita ci avvelena e ci culla. Miele e fiele dallo stesso favo. Scuro e chiaro, ferite e balsamo, violenza e dolcezza, “ragno” e “luna” si intersecano e rincorrono incessantemente.

“Ragno” e “luna” mi hanno assistito nell’esplorazione di questa feconda ambivalenza e guidato nel disvelamento di una personale “via all’armonia”, che chiede di essere percorsa a passo di danza.

Il ragno mitico

All’insegna del ragno, ci approcciamo a un fenomeno culturale intrigante, con il rispetto e la circospezione dovuti ai territori del sacro.

Nel Sud della nostra penisola, “spaccato dal sole e dalla solitudine”, si è celebrato per secoli un rituale di riscatto del disagio attraverso la musica e la danza.

Si tratta del fenomeno del tarantismo, di cui si rileva traccia principalmente nella Puglia meridionale, oggi scomparso nella sua specificità, ma ancora capace di suscitare l’interesse di ricercatori “umanisti”, in quanto allude ad un utilizzo popolare della danza a fini “terapeutici”. In esso la musica della pizzica (variante locale della tarantella), col suo ritmo travolgente ed ipnotico, veniva usata per “guarire” le persone affette da stati profondi di prostrazione (“morse dalla tarantola”), attraverso l’abbandono al vortice del movimento e della musica (2).

Nello spazio protetto del rito, le danzatrici, spesso segnate da condizioni esistenziali faticose, davano libera espressione alla loro energia vitale, sublimando il dolore in “forma” estetica, contenute dal cerchio della comunità che gli si stringeva attorno.

Nella mia esperienza di danzatrice di tarantelle, ho sempre vissuto in prima persona e ritrovato nelle reazioni degli altri il potere liberatorio e vivificante di questa danza. Il vissuto comune ai danzatori che si lanciano nel vortice è la sensazione di condividere un inebriamento di gioia.

Al di là della funzione originaria della danza nel rito (che sembra fosse usata addirittura per indurre stati di trance), con la pratica mi sono sempre più convinta che la funzione “curatrice” di questa e altre forme di danza è legata specificamente alla sua natura estetica, cioè al potere di “dare forma” all’espressione delle emozioni.

Congruenza ed espressione

Il “malessere” corrisponde sempre ad una condizione di “oppressione”. Sia essa sociale o psicologica, si esplica fondamentalmente nella repressione dei bisogni e desideri più autentici della persona, ovvero nel soffocamento della sua identità.

Quando si sente “male” (fisicamente o psicologicamente), l’individuo si ritrova paralizzato, privato della libertà di perseguire i propri obiettivi, financo di mobilitare la sua energia per influire sulla realtà, nelle situazioni più estreme estraneo al suo corpo e ai suoi sensi.

Rispetto a tale blocco, è terapeutico sperimentare modi di accedere alla fluidità, riattivare la circolazione energetica, non nel senso esoterico di evocare chissà quale fluido animico, ma nell’accezione molto pratica e quotidiana di ripristinare il ciclo vitale di: percezione del bisogno/mobilitazione/soddisfazione dello stesso (3).

Il primo passo nel senso di tale guarigione è il “volgersi verso se stesso”: impegnarsi nell’ascolto di sé con l’”epimeleia” richiesta dal culto, al punto di fare contatto intimamente con le proprie sensazioni ed emozioni, oltre gli stereotipi distorsivi introiettati.

Capita a chi “entra in sé” di sentire l’urgenza di “manifestarsi”, ovvero di esprimersi nella pienezza della propria libertà. Ma l’espressione di sé, per essere socializzata, cioè per diventare reale comunicazione con gli altri, necessita di essere “messa in forma”.

L’espressione “pura” dei contenuti psichici ed emotivi è inefficace, oltre che impossibile: oscilla tra urlo e silenzio, non veicola messaggi e non suscita risposte.

Per attingere la dimensione del dialogo, deve diventare linguaggio, ovvero servirsi della molteplicità dei linguaggi elaborati dal sapere umano nella storia. Per trascorrere da cuore a cuore, il pathos deve essere ricompreso nell’orizzonte del logos.

Dioniso ed Apollo hanno bisogno l’uno dell’altro e solo nella reciproca seduzione possono generare Armonia, a dispetto dell’immaginario mitologico che li vuole antagonisti.

Dare forma al caos

Una lettura diffusa vuole le tarantate figlie di Dioniso, nel senso che riconduce il tarantismo ai culti di possessione della Magna Grecia e ai paralleli afro-mediterranei. Questa interpretazione offre spunti di notevole interesse, ma non è nostro obiettivo in questa sede entrare nel merito (4). Mi limito a dipanare il filo di una suggestione simbolica.

E’ indubbio che, nella frenesia della danza, i tarantati esternavano l’istinto di sopravvivenza, l’insopprimibile forza vitale capace di dirompere le costrizioni. Nella fattispecie della condizione femminile nella società agraria meridionale, la danza svolgeva anche una funzione di sfogo rispetto ai condizionamenti di un modello rigidamente patriarcale e manifestava una forma di eros precluso.

Ma ciò che colpisce nell’esecuzione del rito è la constatazione di quanto la musica riuscisse a lenire e contenere tale sfogo, in un certo senso a sublimarlo.

Nell’ostinato ritmico dei tamburelli, nelle tonalità in minore delle melodie, nell’allestimento scenografico del perimetro rituale, nell’afflato relazionale del “coro”, la frenesia è riscattata, incanalata verso esiti rigenerativi anziché distruttivi.

Nel crescendo della danza, sembra si verifichi un passaggio dalla convulsione all’espressione, dal movimento scomposto al movimento composto: in definitiva dal caos alla forma. Il danzatore fa esperienza simbolica della fluidità e in ciò intercetta una via di scampo all’angoscia e di accesso alla salute, nonché di reintegrazione nell’ordine sociale.

Questa dialettica fra spontaneità e forma è ancora più evidente nella tarantella della festa, là dove le tonalità emotive prevalenti sono la gioia e la condivisione, nella forma della complicità di coppia e di gruppo. Essa infatti valorizza al massimo la fantasia e le capacità espressive dei danzatori, essendo basata totalmente sull’improvvisazione. Ma tale improvvisazione consta della gestione creativa di passi e movimenti dati, definiti da un contesto socio-culturale, codificati e trasmessi all’interno di una tradizione. Il sapere collettivo si sposa con quello individuale nella messa a punto delle strategie della salute.

La forza e la grazia

Mi piace pensare alla danza come alla sintesi di libertà e struttura, ispirazione e disciplina, forza e grazia: il luogo in cui Apollo seduce Dioniso.

La frequentazione quotidiana della danza, come di ogni altra pratica artistica, svela l’illusorietà dell’antitesi fra queste polarità. Chi coltiva un’arte sa intimamente che la “struttura” (lo strumentario tecnico e le sue cesellature) non è nemica della creatività, ma sua levatrice: la struttura supporta la libertà, non la limita. Ogni artista sa di essere non tanto (o non solo…) un invasato oracolo del dio quanto un tenace e paziente “artigiano”.

In danza, la “spontaneità” del movimento è un punto di arrivo, non un punto di partenza. La danza come arte implica una componente fondamentale ed ineludibile di impostazione formale del movimento, anzi spesso identifica nella ricerca formale il proprio scopo, in quanto punta ad “aumentare la bellezza del mondo”, introdurre quote inedite di armonia nell’ordine delle cose.

L’apprendimento della danza si basa sullo studio analitico di movimenti, passi, posture, figure di interazione, che porta all’introiezione di schemi e codici, depositati nello storico specifico della disciplina. E’ questo patrimonio introiettato ad offrire al danzatore la possibilità di esprimersi liberamente nell’”improvvisazione artistica”, ovvero immettere la propria “anima” (il proprio timbro particolare e specifici messaggi comunicativi) nell’interpretazione.

La piena padronanza di un codice espressivo potenzia la libertà di espressione,: quanto più accuratamente introiettiamo un codice e quanti più ne condividiamo, tanto più aumenta la nostra “fluidità”, cioè la capacità di esprimerci in modo congruente e persuasivo. Così come conoscere più parole di una lingua o più lingue, consente una grande libertà comunicativa, allo stesso modo padroneggiare con competenza e finezza un patrimonio coreutico consente di manifestare il proprio mondo interno nel modo più articolato, convincente ed evocativo, in definitiva “artistico”.

Nella condivisione della danza, ho spesso sperimentato un’emozione analoga a quella di imparare ed insegnare a “parlare”. Nell’iniziale impaccio e disorientamento, il corpo è “muto”, attraversato da sensazioni che non sa come veicolare. Man mano che esplora le proprie capacità di movimento (apprendendone dinamica, leve, “trucchi”), si connette con sicurezza agli impulsi interni e sa come tradurli in messaggi condivisibili ed “evocativi”. Diventa capace di “emozionare”. Attinge l’orizzonte del poetico.

Acquista eloquenza ed espressività Diventa “parlante” e non solo, ma anche sonoro, palpitante, visionario. Dichiara, evoca, dipinge nello spazio, vibra con la musica, emana e catalizza energia, risuona con gli animi di chi partecipa e chi assiste.

Con la consapevolezza, si espande la sensibilità: fiorisce la “sensualità”.

Il tema della sensualità ci porta sotto il segno della luna, ed è un’altra storia, o meglio…un’altra danza.

Il ventre della luna

L’immaginario corrente associa la danza del ventre alla massima espressione della sensualità femminile. Il mio vissuto in merito (penso comune a molte donne che condividono questo percorso) è che questo stereotipo contiene una profonda verità assieme ad una clamorosa mistificazione.

Vero è che questa danza centra la donna sull’essenza della sua femminilità, sul suo ventre o omphalos (ombelico), che come vuole il mito è nel contempo il centro del mondo, in quanto organo deputato alla trasmissione della nutrizione alla vita nascente.

Falso, o vero in un senso da interpretare, è che la danza del ventre sia finalizzata alla seduzione, all’adescamento dell’uomo attraverso l’eccitazione dei suoi sensi.

A mio avviso la sua valenza seduttiva è insita nella sua natura terapeutica, laddove per terapia intendiamo la cura di sé , nel senso che andiamo esplorando di conoscenza profonda e valorizzazione totale della propria individualità.

La danza del ventre esige una grande dedizione al corpo. Implica consapevolezza e padronanza delle parti del corpo ed ipercontrollo dei movimenti, nel gioco dialettico fra isolazione ed integrazione su cui basa la sua tecnica. Enfatizza la propriocezione corporea, anzi spesso dischiude una consapevolezza nuova e più profonda.

Per attingere la sinuosità che incanta gli spettatori e la danzatrice stessa, il movimento deve “nascere da dentro”: scaturire dalla radice delle fibre muscolari e dal cuore delle emozioni.

Attraverso il raffinamento di percezione e sensibilità, la donna impara a “sentirsi” da dentro e piano piano anche a “valutarsi” da dentro, a sostituire i parametri estrinseci e convenzionali con quelli intimi ed autentici.

In questo viaggio all’interno di sé, si appropria del piacere. Scopre che la gioia primaria di attivare il corpo e muoverlo in modo gratificante è sempre a sua disposizione, che l’estasi dei sensi dipende primariamente da sé, che la fonte principale del benessere è la sua anima: l’autostima e la gioia di vivere sgorgano dal suo animo e sono essenzialmente connesse al suo modo di percepirsi e stare al mondo.

Danzando la donna scopre la propria bellezza e quanto questa sia in sintonia con la bellezza del mondo. Sente di “incarnare” l’armonia. La dedizione al corpo si configura immediatamente, di per sé come dedizione all’anima, oltre i dualismi che le contrappongono artificiosamente.

Il “segreto” della danza orientale è che la donna praticandola trae piacere da se stessa: gode del suo corpo, nella sua straordinaria capacità di creare belle forme, esprimere emozioni, inebriare i sensi, interpretare l’armonia del cosmo. Questo la rende irresistibilmente seduttiva. Nell’acme della sua arte, la danzatrice è realmente “regina”: domina la scena perché domina se stessa. Attrae nella misura in cui si possiede, aderisce alle proprie radici.

E’ questa la quintessenza della sensualità: un’unità di corpo e spirito così autentica e totale da escludere disarmonie.

Dal volto della danzatrice di baladi (5) traspare un rapimento che rasenta l’estasi e quella voluttà mista a sofferenza che contraddistingue le fasi apicali del piacere.

Compos sui

L’etica tardo-antica indugia sulla fenomenologia del piacere. In un contesto in cui l’individuo è risospinto sulla sua finitezza dall’indebolimento del quadro politico e sociale, diventa cruciale per l’uomo “misurare le proprie forze”, capire quanto può “fidarsi di sé” nel costruire la propria felicità.

Al di là delle differenze teoriche, le correnti filosofiche convergono sul principio che l’individuo è responsabile del proprio destino e che il vero piacere è quello che si fonda sull’interiorità.

Seneca distingue fra voluptas e gaudium. La prima include tutte quelle forme di piacere precario e caduco che dipendono dagli oggetti ed eventi esterni (come la bramosia di possesso e potere o i piaceri puramente materiali). Il secondo è il piacere che si trae da se stessi, “nasce da noi e in noi” (6). L’unico puro e imperituro, in quanto sottratto alla mutevolezza della fortuna e all’influsso dei fattori estrinseci.

Al di là delle connotazioni specifiche che le diverse scuole assegnano a questo piacere (un edonismo moderato per gli epicurei, il culto della virtù per gli stoici, la fedeltà a se stessi per i cinici), la sua prerogativa essenziale è il fatto di derivare dall’animo in condizioni di serenità, cioè, diremmo noi oggi, di congruenza con se stesso.

Attraverso le pratiche di sé (comprendenti la meditazione come il regime alimentare, la prevenzione delle malattie come l’applicazione agli studi, l’esame di coscienza come la rinuncia volontaria), l’individuo raggiunge il pieno autodominio, cioè quella padronanza che gli consente di sottrarsi ad ogni dipendenza e ad ogni asservimento.

In questa autonomia si costituisce come soggetto morale: capace di operare delle scelte che propiziano la felicità sua e della comunità.

Essere ciò che veramente si è

Per Carl Rogers, la persona che si accosta a un processo di psicoterapia è mossa dal desiderio di “diventare ciò che veramente è”.

E’ un’espressione solo apparentemente ovvia, che racchiude il senso dei percorsi di crescita personale come li concepiamo nei setting psicologici ed espressivi (dal counseling alla danza).

Secondo buona parte delle teorie psicologiche moderne, ogni individuo nasce libero e cresce “addomesticato”. Per essere accolto dall’ambiente, deve selezionare alcune pulsioni e reprimerne altre, fino a strutturare una personalità che risponde alle esigenze del contesto ma non sempre ai bisogni reali dell’individuo.

In questa dinamica di repressione si inscrive lo sviluppo della nevrosi, che è sempre una deviazione dal vero sé, qualsiasi interpretazione se ne dia (7), e si esplica in meccanismi di “auto-sabotaggio”.

L’individuo non padrone di sé, incapace di organizzare le proprie energie in modo funzionale al raggiungimento dei propri scopi, è irrimediabilmente “servo”, si consegna alla guida di autorità esterne e al relativo arbitrio.

Nella schiavitù non può esservi felicità: al massimo voluptas (compiacimento della dipendenza), non sicuramente gaudium.

Per chi ha a cuore il proprio benessere, “conoscersi per possedersi” diventa obiettivo prioritario: il “compito “ della cura.

“Essere ciò che realmente si è appare la traccia più importante su cui costruire la propria vita” (8).

Questo percorso comincia con il prendere la distanza dalle mistificazioni che hanno soffocato la personalità: quindi con lo sviluppare la capacità di leggere se stessi al di là dell’”apparenza” e del “dover essere”.

Nella trasparenza dell’ascolto di sè, l’individuo fa contatto senza filtri con la gamma completa dei propri sentimenti, emozioni, bisogni, desideri, opinioni e ne scopre la fondamentale “docilità”: essi non sono mostri, ma alleati, suscettibili di essere integrati e sussunti in un progetto di armonioso sviluppo del sé (9).

Scopre in altri termini l’autonomia: la possibilità di affidarsi principalmente, se non esclusivamente, a sé nel tracciare la direzione della propria esistenza.

Si accorge che può fidarsi di sé e che questo lo porterà sulla “buona strada”, che non è necessariamente quella approvata dalla cultura dominante, considerata buona dalla maggior parte degli uomini, ma quella “buona per lui”.

“Gradualmente lui stesso sceglie le mete verso cui vuole dirigersi. Diventa responsabile di sé. Decide quali attività e quali modelli di comportamento hanno significato per lui, e quali non ne hanno” (10).

Nella responsabilità, l’individuo si affranca dall’autorità ed accede all’autorevolezza. In greco antico, una parola riconducibile all’area semantica di “autorevolezza” è exousia: ciò che emana dall’essere. Autorevole è ciò che si impone da sé perchè viene da dentro: possiede prestigio di per sé, induce all’obbedienza senza bisogno di ricorrere alla coercizione. Autorevole è la persona centrata su di sé, in contatto totale con la propria interiorità e congruente nelle proprie manifestazioni di vita. Rifugge la coercizione, sia nei confronti di sé che degli altri, chi conosce l’arte di “scegliere il bene da sè”.

Per un’etica della responsabilità

La responsabilità è di per sé una dimensione sociale (respondeo…), non può che tradursi in “buona convivenza”.

“Strettamente collegate a questa apertura all’esperienza sono l’apertura e l’accettazione degli altri. Quando un cliente diviene capace di accettare la propria esperienza, diviene capace di accettare anche l’esperienza degli altri. Valuta e apprezza sia la propria che l’altrui esperienza per quello che sono” (11).

La responsabilità apre all’empatia, intesa come capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, di sentire come propri i sentimenti dell’altro, attitudine a riconoscere le ragioni dell’altro, in definitiva a riconoscere l’Altro.

Nella misura in cui attribuisco piena legittimità a tutti i miei moventi e le mie espressioni (a prescindere da ogni valutazione moralistica), riconosco e legittimo anche i moventi e le espressioni degli altri, in nome di quella comune natura che intuisco costituire l’essenza dell’umano nella sua finitezza.

La cura di sé è un processo di “conversione” che porta a cogliere l’essenza della natura umana ed apre alla sperimentazione della vita come una sorprendente avventura, in cui l’incessante divenire del sé risuona con quello del mondo dischiudendo sempre nuove forme generatrici di equilibri dinamici, distillati dalla capacità di integrare la luce e l’ombra, il bello e il brutto, il piacere e il dolore, l’amore e l’odio… La salute scaturisce dal “tenere insieme” queste polarità, riuscendo a cogliere in ciascuna il principio, il risvolto e il possibile esito dell’altra. Questa consapevolezza regala la meravigliosa libertà di sostare sulle situazioni, senza l’urgenza di oltrepassarle attraverso fughe “in avanti” (ansia) o “indietro” (rimpianto). Nella coscienza della fluidità e circolarità del tutto, posso permettermi di indugiare sui vissuti, ovvero “sprofondare” nel presente, immergermi senza residui nelle sensazioni ed emozioni del momento, di ciascun momento, suggendone gli umori essenziali.

La fluidità è la cifra dell’esistenza. Nella fase più matura della sua riflessione, Rogers identifica la vita piena con “la vita in continua espansione” e la salute con la capacità di adattarsi a questo processo.

“La maggior parte di noi dà una struttura e una valutazione preformata, che non abbandona mai, alla propria esperienza, e giunge sino ad alterarla per adattarla ai propri preconcetti, sentendosi quasi disturbato dalla fluidità continua che l’esperienza mostra e che contribuisce a renderla tanto irriducibile alle incasellature accuratamente costruite. Aprire il proprio spirito a quanto avviene hic et nunc e scoprire nel processo attuale tutte le strutture ad esso inerenti, sono senza dubbio aspetti fondamentali di una vita in continua espansione” (12).

Il saggio sa immergersi nel processo: abbandonarsi al flusso trovando in questa “resa” un principio di governo. Il modo più efficace di guidare uomini e cose è assecondarne e promuoverne lo sviluppo intrinseco.

E’ l’eterna danza della vita. Il gioco dell’assecondare e condurre che ogni danzatore ben conosce.

Il saggio sa danzare la vita. La vita è una danza. “Negli occhi ti fissai, or non è molto, o vita: nell’occhio tuo notturno vidi brillare l’oro… Due volte soltanto agitasti i sonagli con le tue manine, e già il mio piede si mise a dondolare per la smania di danzare… Con sguardi obliqui tu mi insegni vie oblique, e su vie oblique il mio piede impara malizie!…Che cosa non accettai di soffrire per te! La cui freddezza accende, il cui odio seduce, la cui fuga lega, il cui scherno commuove. Chi non ti odierebbe, grande aggiogatrice, soggiogatrice, tentatrice, cercatrice, trovatrice? Chi non ti amerebbe, peccatrice innocente, impaziente, veloce come il vento, dall’occhio di fanciulla?… Io danzo al tuo ritmo, io ti seguo anche su labile traccia” (13)

Il cuore dell’uomo è il suo “tempio”: il luogo in cui anarkeia (assenza di governo) ed autarkeia (autogoverno) coincidono e fondano la libertà morale. Questa libertà, che si sostanzia di responsabilità, si pone come il fulcro possibile di un’etica della padronanza, capace di funzionare da antidoto ai dispositivi di potere e di inaugurare nelle relazioni umane una prassi di “cortesia”, che metta al primo posto la tolleranza.

Etica sacra e squisitamente laica allo stesso tempo, basata su null’altro (niente di più e niente di meno) che sull’affinità fra esseri umani, sull’empatia connaturata all’”essere gettati” nel mondo.

La legge morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me… e il resto è palpito d’ali.

Grazie a: Valentina Argirò per la consulenza filologica, Luciano Marchino e Giulia Mion cui devo le folgoranti immagini utilizzate in due sottotitoli, Eugenio Montale per il verso citato e il dolente esistenzialismo sublimato in poesia, la tarantola perchè domina il mio mondo onirico, Alberto Dea per avermi proposto di scrivere questo articolo, Mirco Salvador “Zarathustra”, Carl Rogers per esserci stato, Immanuel Kant per essere radicato nel mio subconscio etico pur non avendolo studiato, tutti i miei allievi e compagni di danza alla cui collaborazione quotidiana queste righe devono la loro ispirazione e la loro ragion d’essere.

NOTE

  1. Focault Michel, La cura di sé. Storia della sessualità 3., Ed. Feltrinelli , Milano 2010, pp. 53-4.
  2. Per un’analisi antropologica del fenomeno, vedi la capitale opera di Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Ed. Il Saggiatore, Milano 2008.
  3. Sono le fasi fondamentali del ciclo vitale secondo l’approccio gestaltico. Per una trattazione riassuntiva dell’argomento, vedi Ginger Serge e Anne, La gestalt. Terapia del contatto emotivo, Ed. Mediterranee, Roma 2004, pp. 135-152.
  4. Vedi Lapassade George, Intervista sul tarantismo, Ed. Madona Oriente, Maglie 1994.
  5. Il baladi è lo stile più “emozionale” della danza del ventre egiziana, fortemente radicato nella tradizione popolare e denso di implicazioni artistiche.
  6. Seneca, Lettere a Lucilio, Ed. Rizzoli, Milano 1974, 23, 3-6: “…desidero che non ti manchi mai la gioia, anzi che ti nasca in casa; e nascerà, purchè essa sia dentro te stesso…Essa non ti verrà mai meno, una volta che ne avrai trovato la sorgente… Mira al vero bene e gioisci di ciò che ti appartiene. Mi domandi che cosa ti appartiene? Sei tu stesso e la parte migliore di te.”
  7. Cfr. Ginger S. e A., op. cit. p. 139: “Schematizzando all’estremo, si potrebbero così riassumere le ipotesi concernenti l’etiologia della nevrosi in parecchi autori. Per Freud: rimozione delle pulsioni libidiche, proibite dal Super io; per Reich: divieto sociale dell’espressione delle pulsioni sessuali genitali; per Horney: soluzione economica provvisoria, divenuta anacronistica, apportante il massimo di vantaggi secondari in una situazione di tensione; per Perls: accumulazione di bisogni interrotti o Gestalt incompiute; per Goodman: perdita della funzione Ego di adattamento creativo.”
  8. Rogers Carl R., La terapia centrata sul cliente, E. Giunti, Milano 2013, p. 171.
  9. Rogers C. R., op. cit., p.173: “Quanto più insomma egli è in grado di permettere a questi sentimenti di scorrere e di esistere in lui, tanto più essi assumono un loro posto appropriato nell’armonia globale della sua vita. Scopre di avere altri sentimenti con cui questi si confondono e trovano un equilibrio… I suoi sentimenti, quando li vive con intensità e li accetta nella loro complessità, operano in armonia costruttiva, invece di trascinarlo su una strada irrimediabilmente sbagliata”.
  10. Rogers C. R., op. cit., p. 166.
  11. Rogers C. R., op. cit., p. 170.
  12. Rogers C. R., op. cit., p. 184.
  13. Nietzsche Friedrich W., Così parlò Zarathustra, Ed. Rizzoli, Milano 1985, pp. 253-254.

BIBLIOGRAFIA

De Martino Ernesto, La terra del rimorso, Ed. Il Saggiatore, Milano 2008

Focault Michel, La cura di sé. Storia della sessualità 3, Ed. Feltrinelli, Milano 2010

Ginger Serge e Anne, La gestalt. Terapia del contatto emotivo, Ed. Mediterranee, Roma 2004,

Kant Immanuel, Critica della ragion pratica, Ed. Laterza, Roma 2012

Lapassade George, Intervista sul tarantismo, Ed. Madona Oriente, Maglie 1994

Nietzsche Friedrich W., Così parlò Zarathustra, Ed. Rizzoli, Milano 1985

Rogers Carl R., La terapia centrata sul cliente, Ed. Giunti, Milano 2013

Seneca Lucio A., Lettere a Lucilio, Ed. Rizzoli, Milano 1974

Articolo pubblicato sul n° 3 della rivista Passaggio in volo, quaderno di approfondimento dell’Associazione Punto Gestalt “PEGASUS”, Supernova, Mestre Gennaio-Giugno 2014.

 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *