Il linguaggio segreto delle emozioni

GASPARI I., Il linguaggio segreto delle emozioni, Einaudi, Torino 2021, pp. 159

E’ un “diario filosofico” il bel libro di Ilaria Gaspari “Il linguaggio segreto delle emozioni”. In esso la giovane filosofa ricostruisce “le vicende delle parole con cui diciamo i nostri stati d’animo”, raccontando i propri vissuti in merito ed inquadrando ogni “passione” dal punto di vista filosofico, ovvero esplicitando i “paradigmi di osservazione e di studio” attraverso cui la filosofia le ha interpretate.

Il messaggio centrale del libro è l’invito a passare dal “subire” le emozioni ad assumerle consapevolmente: accoglierle con serenità e gestirle con padronanza, decifrando quanto ci rivelano su noi stessi e sulla condizione umana in generale e sfruttando appieno il loro potenziale comunicativo e trasformativo.

La parola “emozione” deriva dal latino e-moveo: letteralmente “portare fuori”, ma anche “smuovere, agitare, scuotere”. Questa etimologia evoca due significati: 1) l’emozione nasce dentro di noi, è una “vibrazione dell’anima”, che chiede di essere manifestata all’esterno, “reclama” la condivisione; 2) l’emozione è qualcosa che ci fa scuotere dal nostro stato abituale, ci “mette in movimento”.

Carattere principale dell’emozione è l’immediatezza: essa è una reazione automatica del nostro sistema nervoso vegetativo a uno stimolo esterno che sollecita la sensibilità, a prescindere dalla mediazione del pensiero; coinvolge “visceralmente” l’organismo e si manifesta in espressioni che sono al contempo fisiche, sensoriali, mentali.

A causa di questa loro natura “materica” e per molti aspetti incontrollabile, le emozioni sono state guardate con sospetto da molti pensatori nella storia della filosofia. “Platone ad esempio considera le emozioni negative perché legate al corpo, di cui l’anima è prigioniera, e dunque incontrollabili e di ostacolo alla ragione… Per Aristotele, solo attraverso la gestione razionale delle emozioni, cioè il controllo da parte della ragione della nostra risposta a stimoli esterni, l’uomo può diventare un “animale razionale e sociale”… Dopo di loro, stoici ed epicurei sostennero la necessità di eliminare le emozioni per vivere serenamente… Nella filosofia di Cartesio, incentrata sulla contrapposizione tra mente e corpo, esiste una netta distinzione tra razionalità ed emozioni, considerate come una serie di automatismi e appartenenti al cosiddetto esprit de béte (spirito animale)”[1].

Le scienze umane contemporanee hanno decisamente rivalutato le emozioni, a partire dall’esistenzialismo e dalla fenomenologia (attenta ai “fenomeni in quanto tali” e quindi rispettosa di tutte le manifestazioni del “mondo della vita”, comprese quelle emotive), passando attraverso la psicologia scientifica ed empirica (che assume i “vissuti” quali oggetti di analisi), ed approdando al cambio di paradigma epocale segnato dalla psicanalisi, dalla psicologia umanistica, dall’”intelligenza emotiva” di Goleman, dagli studi sull’empatia e dal rinnovato interesse per le emozioni di tutte le discipline “olistiche” praticate ai giorni nostri.

Ciò non toglie che ci troviamo a fare i conti con una tradizione di pensiero che per secoli ha svalutato o addirittura colpevolizzato le emozioni, “considerate materiale di scarto o fattori di disturbo rispetto al funzionamento delle attività “superiori” della mente”[2]. Il motivo di tanta diffidenza è identificabile nel potenziale “deflagrante” delle emozioni: la possibilità che esse, nell’incandescenza del loro manifestarsi, prendano il sopravvento sulle altre facoltà umane, offuscando la nostra lucidità e suscitando comportamenti avventati o distruttivi. Da ciò la necessità di controllarle e/o reprimerle.

Parallelamente a tale corrente di pensiero, si è consolidata nel senso comune una sorta di diffidenza verso le emozioni, associate di default all’instabilità o “volubilità” e quindi stigmatizzate quali sintomi di una certa qual “debolezza”, che non si addice allo stile di vita iper-efficiente e performativo che ci impone la “società dei risultati”. Non a caso nel mondo occidentale, le emozioni sono state a lungo considerate territorio tipicamente “femminile” e la confidenza con esse scoraggiata presso i maschi eterosessuali, educati a non esplorare né tantomeno manifestare la propria interiorità. Tutti questi fattori (ed anche altri, più imponderabili e sotterranei, connessi ai vissuti individuali e all’inconscio collettivo), determinano un diffuso “analfabetismo emotivo” che impoverisce la qualità delle nostre relazioni e della nostra vita.

La Gaspari prende le mosse dalla necessità di “rivisitare” le emozioni in una luce che ne illumini l’essenza, e lo fa con uno stile di scrittura che fonde indagine speculativa e narrazione intima, dimostrando di padroneggiare quel “linguaggio emotivo” che alla coscienza contemporanea si offre come il più adatto a “dare voce all’Io profondo”[3], laddove ragione e cuore sono indissolubilmente connessi.

Undici capitoli scandagliano la fenomenologia delle seguenti emozioni, dalle più umbratili alle più luminose: nostalgia, rimpianto e rimorso, ansia, compassione, antipatia, ira, invidia, gelosia, meraviglia, felicità, gratitudine. Ciascuna di esse, se esplorata senza pregiudizi, ci racconta qualcosa di prezioso sull’essenza della natura umana.

La nostalgia ci dice che “vivere vuol dire rinnovarsi di continuo”. Il rimpianto e il rimorso ci segnalano la “miriade dei possibili” di cui si nutre la nostra libertà e il loro necessario consumarsi nell’ineluttabilità della scelta. L’ansia ci chiede di “misurarci con il sentimento abituale della nostra imperfezione”. Provare compassione equivale a “scoprirsi umani” e addestra a rispecchiarci negli altri. L’antipatia ci insegna “che al mondo, ci piaccia o no, non ci siamo solo noi”. L’ira ci insegna a “difendere i confini della nostra e dell’altrui identità”. Ammettersi invidiosi equivale a “riconoscere una propria mancanza” e ci orienta verso la qualità che ambiamo sviluppare. La gelosia si fonda sulla “paura di essere sostituibili” ma allo stesso tempo rivela che la “sostituzione” è la dinamica intrinseca degli affetti. Dalla meraviglia “nasce la filosofia”: l’attitudine a guardare il mondo con uno sguardo sempre nuovo e ad interrogarsi sui perché. La felicità scaturisce dalla capacità di abitare la propria “perfezione”. La gratitudine è la gioia connessa al semplice “senso di essere al mondo”, magari riflessa nello sguardo carico di devozione e fiducia di un “amico a quattro zampe”.

In questa fantasmagoria di manifestazioni, il fil rouge che attraversa tutte le emozioni è il senso di connessione, il vissuto dell’essere essenzialmente in relazione con il prossimo e con il mondo. Le emozioni “ci accomunano agli altri”, perché “riguardano tutti, colpiscono tutti”, anche se assumono significati diversi a seconda delle storie personali. Esse ci regalano la coscienza della comunanza, della similitudine con gli altri individui: sono anzi ciò che ci rende specificamente umani.

Decifrare la lingua degli affetti equivale a “riconoscersi negli altri e a conoscere gli altri dentro di sé”. Il “cuore segreto” di ogni emozione è il rispecchiamento fra il sé e l’altro, il rimando alla comune vulnerabilità.

Indagando francamente il proprio mondo affettivo, scopriamo che anche le emozioni più struggenti, pesanti e solitarie in realtà “vivono, altrettanto segrete, altrettanto umbratili e arcane, in tutti gli esseri umani… Siamo soli, e insieme non lo siamo, se riusciamo a indovinare anche negli altri, senza rompere il mistero, intuendola da lontano, la nostra stessa imperdonabile, ma sempre perdonata imperfezione”[4].

Si tratta dunque di assumere la finitezza, quale regno delle possibilità oltreché dei limiti, condizione anzi in cui il limite si converte in possibilità ogni qualvolta viene lucidamente compreso, autenticamente accettato e gestito con la serena padronanza che deriva da tale accettazione.

Le emozioni rendono evidente e palpabile la trama intersoggettiva dell’esistenza, testimoniano l’”impossibilità di pensarsi autosufficienti”. L’io è essenzialmente esposto a ciò che lo trascende. Ognuno di noi vive “eternamente in connessione con qualcosa, continuamente dentro un legame con tutte le altre persone e tutti gli altri elementi”[5]. La coscienza di tale legame apre alla possibilità della comprensione empatica e della solidarietà.

Il confine tra noi e il mondo è “labile, mutevole, imperfetto come siamo tutti, continuamente soggetto al cambiamento che il vivere porta nella fisionomia del nostro io”[6]. Tale labilità ci può atterrire, ma anche consolare, inquietare ma anche sorprendere. “Nel segno della debolezza”, ci ritroviamo e incontriamo l’altro. “Arrenderci all’altro” ci consente di lasciarci pervadere dalle emozioni di benevolenza e di deporre le emozioni di conflitto, nella consapevolezza che anche se abbassiamo le difese, anche se lasciamo occasionalmente scoperti i confini della nostra identità, non necessariamente ci succede qualcosa di terribile, perché l’altro è come noi, similmente impaurito e curioso, triste e felice, forte e debole, aggressivo di fronte agli attacchi, responsivo alle manifestazioni di comprensione, rispetto, apprezzamento.

Non è quindi necessario vivere “in difesa”. Ci possiamo permettere di rivelarci, deporre la maschera, abbassare il ponte levatoio. Facilmente l’altro reagirà ai nostri segnali di distensione con analoga accondiscendenza, risponderà con gentilezza alla gentilezza, con affetto all’affetto, dato che il desiderio di amore arde nell’intimo di ogni animo umano.

In diversi passaggi Gaspari evoca il concetto che amarsi per quello che si è, è il presupposto per poter lasciarsi amare per quello che si è. Amare se stessi implica l’accordare fiducia al proprio patrimonio emozionale. Le emozioni non vanno “dominate”, ma gestite: ascoltate, decifrate, assecondate o educate, coltivate, governate.

L’alternativa alle passioni tristi non è la morale (l’autocontrollo, la repressione, l’imporsi di essere perfetti…), ma il vivere le passioni felici, “consegnandosi” ad esse, assaporandole appieno: ciò ci consente di dilatare il presente e funge da trampolino di lancio per “saltare nell’onda della vita”.

E’ quanto sembra suggerire un filosofo anticonvenzionale quale Baruch Spinoza, che oltre ad aver affermato la “naturalità” delle passioni e ad averle epurate dal senso di passività designandole col termine “affetti”, nel V libro dell’Etica sostiene che: “La beatitudine non è il premio della virtù, ma è la virtù stessa”.

“Vivere in modo virtuoso… vuol dire allora vivere nel modo più attivo possibile, non soffocando le emozioni… ma cercando di decifrare la lingua degli affetti, che possiamo comprendere solo riconoscendoci negli altri, specchiandoci in chi ci sta di fronte e scoprendo quanto ci somigliamo, quanto gli altri sanno essere causa di quello che proviamo noi, e viceversa. E allora il premio, che non è un premio, che non è un traguardo da tagliare né una medaglia, che non si conquista alla fine del percorso ma si distilla dentro ogni passo, si rivela per quello che è: il mondo intero e l’infinita, stupefacente possibilità di aprirci alla vita che ci si spalanca davanti , ogni giorno, ogni volta che arriviamo a dilatare il presente, che saltiamo dentro un’onda e ne rimbalziamo fuori vivi, meravigliati, felici, grati persino; perché sono la meraviglia, la felicità, la gratitudine… l’unico antidoto, forse, alle passioni tristi, all’odio, all’invidia e a tutta quella costellazione emotiva che ci vuole aridi e impotenti”[7].

Il libro di Gaspari si inserisce a pieno titolo in quella corrente, ormai prevalente, della filosofia contemporanea che rivaluta le “ragioni del cuore”, integra l’emotività nella razionalità, riconosce l’esistenza di molteplici tipi e livelli di intelligenza, attribuisce alle emozioni una fondamentale funzione conoscitiva e trasformativa. “Le emozioni sono portatrici di conoscenza e di metamorfosi, per il solo fatto che ci portano fuori dai confini del nostro io e ci mettono in risonanza con il mondo delle cose e delle persone”[8].

L’obiezione principale a tale valore euristico delle emozioni è la constatazione della loro intrinseca ambiguità, legata alla volatilità della loro natura e potenzialmente foriera di autoinganno ed equivoci. Esistono effettivamente delle emozioni “nevrotiche” che sono formazioni reattive ed imprigionano l’individuo in copioni involutivi. Ma a ben guardare anche queste “hanno ragione”: ci rivelano le nostre difese, che vanno rispettate, accolte con benevolenza, se poi vogliamo smontarle a poco a poco e diventare liberi.

L’ambiguità di cui si nutrono le emozioni è l’ambiguità stessa della vita umana, tanto destabilizzante quanto preziosa, perchè riflette l’irriducibile polivalenza dei fenomeni, che proprio nel loro essere indefinitamente e infinitamente sfaccettati offrono nutrimento inesauribile alla nostra libertà.

  1. Le emozioni nella storia del pensiero umano, in italymanager.com.
  2. Ibidem.
  3. Izzo Francesco, lezione Il linguaggio emotivo, dal videocorso Il romanzo psicologico e le narrazioni dell’io.
  4. Gaspari I., Il linguaggio segreto delle emozioni, pp. 27-28.
  5. Izzo Franceco, op. cit.
  6. Gaspari I., op. cit., p. 42.
  7. Gaspari i., op. cit., pp 110-11.
  8. Izzo F., op. cit.

 

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