La quattordicesima domenica del tempo ordinario
Con “La Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario” Pupi Avati torna al registro che gli è più congeniale: quello della nostalgia. A prima vista può apparire un film sulla “disillusione”, in quanto tratta di sogni infranti e di occasioni perdute. In realtà l’intensità descrittiva riscatta i vissuti di scacco che vi sono ritratti e la poesia sublima l’infelicità proiettandola nell’alone di riverbero della speranza.
Marzio e Samuele sono i due protagonisti, legati da amicizia fin dall’infanzia. Appassionati entrambi di musica, nella Bologna degli anni ’70 formano un duo, i Legenda, che riscuote un discreto successo nei locali cittadini. Contestualmente Marzio incontra Sandra, giovane e affascinante ragazza, anticonformista, che coltiva il sogno di diventare indossatrice. Grazie a una corte lunga e serrata, costellata anche di episodi di rifiuto, Marzio riesce a conquistare il cuore di Sandra e la sposa nella “quattordicesima domenica del tempo ordinario” (che corrisponde al 24 giugno del 1964, data in cui il regista sposò effettivamente la moglie, da lui considerata “la più bella ragazza di Bologna”).
Il loro amore, dapprima idilliaco, non tarda ad imboccare la strada della crisi, dovuta soprattutto alla gelosia patologica di Marzio. Allo stesso tempo l’aspirazione dei Legenda a conquistare una maggiore fama viene frustrata dal rifiuto della loro richiesta di partecipare al festival di San Remo. A questo punto, il più pragmatico Samuele abbandona ogni velleità artistica ed intraprende una folgorante carriera in banca che lo porterà a diventarne dirigente, mentre il “sognatore” Marzio (in cui è facile identificare l’alter ego del regista) continua a tentare la strada del mondo dello spettacolo senza successo.
Nel 2023 ritroviamo Marzio, ormai diventato un malinconico rocker agée che si accontenta di comparsate televisive, mentre si reca da Samuele a chiedere un finanziamento. L’amico rifiuta e riaffiorano antichi dissapori, legati anche alla rivalità amorosa rispetto a Sandra. Pochi giorni dopo, Samuele si suicida, in seguito alla morte del figlio malato. Al funerale Marzio e Sandra si reincontrano, tracciano un bilancio dei rispettivi falllimenti e riallacciano maldestramente i fili di una relazione basata su un sentimento mai sopito che ha i tratti dell’amore assoluto.
Molte le sequenze intinte di malinconia, se non addirittura di cupezza. Solo e malinconico è Marzio, pateticamente aggrappato a un’identità sorpassata e alle prese con un’esistenza precaria. Sola e in declino è Sandra, che dopo il divorzio da Marzio non è più riuscita a trovare un amore soddisfacente ed attualmente è sull’orlo della miseria. Addirittura disperato è Samuele, che si vede sottratto da una sorte ostile il figlio appena trentaquattrenne. Realistica ed impietosa la descrizione della vecchiaia, che ormai ghermisce tutti i protagonisti, con il suo corredo di malanni, paure, vulnerabiità.
Ma numerose sono anche le scene luminose, evocative, potentemente e raffinatamente liriche. In primis i flash back sulla fase aurorale dell’amore fra Marzio e Sandra, che culmina nell’apoteosi del matrimonio: la radiosità struggente soffusa sui volti dei due sposi riflette con piena aderenza il senso di felicità ed appagamento che scaturisce dall’amore corrisposto. In secundis i numerosi squarci in cui risuona la colonna sonora portante del film: la bella canzone scritta da Pupi Avati e musicata da Sergio Cammariere, che porta il titolo del film stesso.
“Ovunque nella stanza ci son sogni non realizzati. Si involano lontano nel silenzio terre remote. Le cose belle son fuggite via, dal cielo buio della vita. Vennero una domenica di giugno, che avemmo per essere felici. E torno ancora e so che tornerò per sempre, alle tue dita che intrecciano le mie nel tuo tepore. Le cose belle son volate via, dal cielo buio di tutta la mia vita. E le tue labbra che cercano le mie, le tue labbra che trovano le mie. E tornerò per sempre. Noi nell’attesa del ballo, nell’indugio del ballo, nel tepore del ballo, nel lucente silenzio… Nel tuo tepore sempre”.
Questo struggente testo si rivela “il perno fondante attorno al quale ruota l’intera giostra narrativa ed emozionale della storia”[1]. Esso veicola il messaggio che almeno due valori sono in grado di contrastare l’entropia che nella dimensione dell’umano tende a ridurre in cenere i sogni: l’arte (nello specifico la musica) e l’amore. Anche laddove i sogni infranti e le speranze disattese disegnano scenari deprimenti, la musica “non smette mai di suonare le note più belle, di comporre melodie sempre nuove e di dare luce nei meandri più oscuri”[2]; in altri termini, riscatta o sublima le sensazioni opprimenti e i sentimenti negativi. Quanto all’amore, è sempre pronto a riaffiorare dalle pieghe più intricate dell’esistenza, può risorgere dalle proprie ceneri (come dimostra la storia di Marzio e Sandra) o sorprenderci di soppiatto quando meno ce lo aspettiamo o ancora balenare fuggevolmente nell’”indugio di un ballo” o in un intrecciarsi emozionato ed estemporaneo di dita o di labbra. Ma “nel tepore sempre”…
La Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario è un film sulla fallibilità umana, che non è assoluta proprio perchè è umana. Avati dichiara che “siamo tutti falliti rispetto ai nostri sogni”, nel senso che ciò che riusciamo a realizzare nelle nostre esistenze è di norma sempre inadeguato ed imperfetto rispetto alle aspettative. Ma proprio in tale imperfezione risiede la possibilità di rilanciare il gioco, di ricucire gli strappi, di riagganciare i fili smagliati e tessere con essi una nuova trama.
Se non si smette di crederci, “le pareti possono tornare a tingersi di blu”, Sandra può volgere uno sguardo finalmente empatico e tenero alle debolezze che ha detestato nell’uomo che nel profondo di sè non ha mai smesso di amare e una nuova storia può ripartire, magari molto diversa da quella che si sarebbe voluta, ma ugualmente interessante, ugualmente e forse più preziosa.
“La Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario non è una banale operazione nostalgia o un semplice e rassegnato elogio del fallimento, come ad un primo sguardo potrebbe sembrare, bensì un modo per ricordare e ricordarsi che i sogni non realizzati, se tenuti in vita, possono diventare un punto di partenza per assemblarli nuovamente creandone di nuovi”[3] .
D’altra parte la nostalgia, letteralmente il “male del ritorno”, ci dice che vivere vuol dire rinnovarsi di continuo, ci segnala che la miriade di possibilità di cui si nutre la nostra libertà necessariamente si consuma nell’ineluttabilità della scelta e quindi si assottiglia col trascorrere del tempo. Ma il comprimersi degli orizzonti se da un lato può generare una resa all’ineluttabile che ha il sapore dell’imperturbabiità, dall’altro lascia comunque sempre spazio all’irruzione dell’inedito. Perchè l’uomo non è mai un progetto definitivamente compiuto, ma un’opera (d’arte) in via di realizzazione.
Perchè “siamo fatti della sostanza stessa dei sogni”[4] , il che equivale a dire che abitiamo il territorio evanescente e fertile dell’ambiguità, in cui sono racchiusi i semi di tutte le possibilità.
- Recensione de “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, di Corrado Monina, 10 Maggio ’23, ecodelcinema.com. ↑
- Recensione de “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, di Carlo Capalbo, 7 maggio ’23, madmass.it ↑
- Monina C., op. Cit. ↑
- Cfr. W. Shakespeare, “La tempesta”. ↑
Bella recensione! Viene voglia di andare a vedere il film in queste serate estive!