Il sol dell’avvenire
E’ un Nanni Moretti in stato di grazia colui che produce, dirige e interpreta Il sol dell’avvenire. Allo stesso tempo fedele a se stesso e sorprendentemente “leggero” e ottimista. Con un finale radioso tanto quanto onirico, che non può non colpire i cuori che, nonostante e contro tutto, continuano a “battere a sinistra”.
Ritorna alla grande in questo film il leitmotiv del “cinema nel cinema”: Giovanni è un regista tormentato e poco prolifico che dirige tra mille incertezze un film sulla vita di un intellettuale comunista nella Roma del 1956, l’anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Nel corso della lavorazione, la sua vita sembra andare in frantumi, analogamente a quella del suo protagonista: la moglie vuole lasciarlo e si “consegna al nemico” (impegnandosi a produrre un’action movie di infimo livello), il suo produttore viene arrestato per guai con la finanza, la figlia si fidanza con un uomo molto più vecchio di lei, Netflix boccia clamorosamente il suo progetto, la sua attrice principale si permette di improvvisare l’amore in un racconto politico e soprattuto si presenta sul set con i sabot.
Ennio (il protagonista del film che Giovanni sta girando) è giornalista di punta dell’Unità e segretario della sezione comunista del Quarticciolo. Mentre esplode la magia della luce elettrica e si installa nel quartiere il circo ungherese Budari, invitato dal partito, arrivano dalla televisione le sconcertanti immagini dell’avanzata dei carri armati sovietici su Budapest. Il personale del circo sciopera per solidarietà con i connazionali, i militanti comunisti italiani sono in subbuglio mentre Togliatti non condanna l’intervento sovietico (ndr. Da un carteggio postumo risulta che lo abbia addirittura sollecitato). Diviso fra la propria coscienza e la fedeltà alla linea del partito, contrastato dalla stessa moglie che caldeggia una decisa presa di posizione ostile all’invasione, Ennio progetta di suicidarsi.
Un gruppo di produttori coreani, affascinati dal finale senza speranza del film, accettano di finanziarlo. Contestualmente Paola, la moglie di Giovanni, va a vivere da sola. E’ proprio a questo punto, nel momento in cui Giovanni realizza il fallimento del proprio progetto sentimentale e l’anacronisticità dei propri ideali, che decide di dare una svolta clamorosa alla trama del proprio film (e forse della propria vita?). Il finale del film viene stravolto: il segretario non si impicca più ma sposa la causa della moglie e con una piccola folla va alla sede del PCI in Via delle Botteghe Oscure sotto le finestre di Togliatti, riuscendo ad ottenere la svolta desiderata; il giorno dopo, infatti, sul quotidiano “L’Unità” campeggia in prima pagina il titolo “Unione Sovietica addio!” Tutto il cast del film (e di alcuni film precedenti di Moretti) si ritrova a marciare gioioso lungo via dei Fori Imperiali: portano in processione bandiere rosse e una gigantografia di Trotsky. Una scritta a fine della pellicola rivela come, grazie all’abbandono della linea filosovietica da parte del PCI, in Italia sia stata realizzata l’utopia comunista tanto cara a Marx ed Engels.
Trovo illuminante comparare questo film a Palombella Rossa: l’implacabile sottotesto di entrambi i copioni è la riflessione sul “cosa significa essere comunisti oggi”, tormentata e rabbiosa in Palombella, dolente e oserei dire “scanzonata” in quest’ultima produzione. “Scanzonata” anche in senso letterale: nel Sol dell’avvenire Moretti introduce più massicciamente e incisivamente che negli altri suoi film scene in cui gli attori cantano e ballano, evocando quasi il genere musical. E secondo me non a caso, ciò che traghetta Giovanni verso il “viraggio” (dalla disperazione al sogno), non è un fatto oggettivo (un colpo di scena nella trama) o l’esito di un ragionamento introspettivo, ma una canzone: quel “Vorrei vederti danzare” di Battiato, cui si abbandonano vorticando attori del “primo” e del “secondo” film, nel momento in cui tutto sembra già deciso e perduto, per ritrovarsi catapultati all’improvviso in una dimensione talmente surreale da sostituirsi al reale con assoluta credibilità, tanto da suscitare nello spettatore l’entusiasmo per la possibilità di riscrivere la storia a partire dal piano dei valori e degli ideali, ovvero un salutare rinnovato afflato utopistico.
Negli ambienti intellettuali, si dibatte da anni su “quanta utopia” ci sia nel marxismo[1]. Come filosofa mi spetta il compito di sottoporre al vaglio della critica qualsiasi sistema ideologico: considerata nel suo impianto complessivo, l’ideologia marxista si presenta come animata da una forte tensione utopica, nella misura in cui auspica l’avvento di una società armonica, in cui l’uguaglianza si fonda sulla solidarietà, in cui l’individuo si identifica col corpo sociale, che ne costituisce l’essenza, in cui la fratellanza universale scaturisce dall’abolizione delle classi e della proprietà privata e, nella fase finale della piena affermazione del comunismo, diventa possibile perfino l’abolizione dello stato, nell’esplicarsi della democrazia diretta: un autogoverno dei produttori associati in cui il dominio sugli uomini sarà completamente sostituito dalla semplice amministrazione delle cose.
Peccato che per raggiungere tale obiettivo Marx ritenga imprescindibile il ricorso alla violenza. Uno dei dogmi fondamentali del marxismo è la necessità della rivoluzione proletaria, il cui scopo è quello di abbattere lo stato borghese e le sue forme istituzionali. La “dittatura del proletariato” si configura pertanto come la misura politica fondamentale per la transizione dal capitalismo al comunismo.
Ora, la legittimazione teoretica della dittatura (sia pure “popolare” e “transitoria”) apre il varco all’irruzione nella storia dell’orrore. Una volta instaurata, la dittatura tende per sua natura ad incrudelirsi e perpetuarsi, perchè non conosce limiti, esclude per definizione il controllo su di sè, mette in scacco il diritto.
Non a caso la maggior parte dei tentativi di realizzare storicamente il comunismo ha generato sistemi politici che hanno contraddetto nei fatti gli ideali marxisti: veri e propri “regimi” che nel loro assolutismo hanno perseguitato ogni forma di dissenso o anche solo di divergenza ed hanno prodotto povertà, sofferenza, disuguaglianza, morte.
Il fallimento “storico” del comunismo segnala quindi la fondamentale fallacia dell’ideologia comunista? Secondo me, non necessariamente. Condannare tout court il comunismo non gli rende giustizia. Nella concezione dei suoi padri fondatori, esso era e resta tuttora una grande ideologia (o meglio “utopia”?) di emancipazione e fratellanza universale, che prende le mosse dalla critica radicale alle basi materiali dell’ineguaglianza e dell’alienazione. Tale critica conserva ad oggi tutta la sua carica trasformativa: in una società globalizzata in cui enormi sacche di povertà sono prodotte dalla concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi, urge contestare l’iniqua distribuzione dei beni e del potere e rimettere al centro i valori dell’uguaglianza e della solidarietà. Con lo sguardo rivolto a un ideale modello sociale che preveda la realizzazione dell’individuo (di ogni individuo) secondo le sue capacità e i suoi bisogni[2], grazie alla garanzia di pari opportunità nella fruizione delle risorse materiali e immateriali.
A mio avviso, tale scopo può essere raggiunto solo a due condizioni: 1) l’integrazione nell’ideologia socialista dei valori “liberali”: la salvaguardia dei fondamentali diritti dell’uomo e del cittadino propugnati dalla più nobile tradizione del liberalismo europeo (libertà di opinione, credo politico e religioso, espressione, tutele giuridiche, garanzie costituzionali, separazione dei poteri) 2) l’”elevazione spirituale” delle masse, fondata sulla crescita morale degli individui. Solo degli individui dotati di un’elevata capacità di autodisciplina, controllo delle proprie azioni e propensione a perseguire il valore del bene comune, possono supportare l’instaurazione e il consolidamento di una società egualitaria e solidale.
Tale genere di comunismo non è sicuramente quello del “socialismo reale”: non è stato realizzato dall’Unione Sovietica né dagli altri numerosi regimi sedicenti comunisti che la storia ha visto fiorire in diverse parti del mondo negli ultimi due secoli. Forse non è neppure compiutamente realizzabile, forse è solo un’”idea regolativa” (intesa alla Kant, come motore propulsore della ricerca), forse è davvero un’UTOPIA. Ma è quell’utopia che ci “rende felici” (come recita la didascalia di coda del film di Moretti): il “sol dell’avvenire” che ci scalda il cuore ed illumina la nostra strada, come stella cometa ai Magi, come stella polare ai naviganti, come il verso più incisivo al poeta, come il corpo più apollineo allo scultore, come la perfetta armonia al musicista e al danzatore.
Tale genere di comunismo è “roba da artisti”, più che da uomini politici: sognatori, visionari, professionisti dell’imperfetto e del perfettibile, esploratori dell’universo dei possibili, precursori di “cieli e terre nuove”.
Tale genere di comunismo va “cantato e danzato”, in innocenti ed eversivi girotondi, rivoluzionari proprio perchè impolitici, spontanei come la speranza nell’essere umano non “addomesticato”; va rappresentato sui palcoscenici e nei set dove ci si può permettere di giocare con le possibilità, di inscenare il tutto e il suo contrario, di dare corpo e voce ai sogni; va portato in trionfo in cortei gioiosi e beffardi, consapevoli della grandezza e della fragilità dell’utopia, capace di motivare ad azioni valorose e poderose trasformazioni sociali quanto di svanire da un momento all’altro e polverizzarsi sotto il peso della “banalità del male”.
In Palombella rossa, il giovane Michele Apicella, a un amico che gli chiede “perchè sei diventato comunista?” risponde: “Perchè penso sia giusto, perchè non ti senti isolato, perchè sei con altre persone che credono come te in certe cose, sei parte di un movimento che va avanti in tutto il mondo, vedi cos’è questa realtà e cerchi di trasformarla, perchè ami l’umanità e se ami quella vera fai in modo che venga fuori” (frammento estrapolato dal corto giovanile La sconfitta). Già queste dichiarazioni connotano un’adesione “umanistica” al comunismo, che stride con la realpolitik messa in atto dal PCI, di cui pure Michele diventa un attivo militante fino ad arrivare a ricoprire l’incarico di deputato.
I suoi dubbi e turbamenti si sovrappongono alla crisi del partito nel momento in cui questo affronta la metamorfosi epocale che lo traghetta verso la nuova identità di forza socialdemocratica decisamente aperta al centro. La perdita di memoria del protagonista è metafora dello smarrimento di identità del partito, che fatica a trovare un nuovo protagonismo in una società profondamente mutata dalla fine dei due blocchi (il film è del 1989, anno della caduta del muro di Berlino e della “svolta della Bolognina”, primo passo del processo che porterà allo scioglimento del PCI e alla nascita del Partito Democratico della Sinistra).Il film si sviluppa intorno ad una partita di pallanuoto (sport praticato sin da giovane dal regista) in cui Michele cerca di ritrovare la memoria perduta attraverso un riaffiorare di ricordi confusi ed una realtà che non riesce a comprendere o nella quale non si riconosce.
Alla fine, non ritrova solo la memoria (equivalente alla fedeltà agli ideali giovanili) ma una sorta d’ispirazione profetica, sia pur inquieta e contraddittoria, al rinnovamento. Ai giornalisti che gli chiedono provocatoriamente “Dove vuole andare il PCI?” Apicella deputato risponde: “Il PCI deve andare nella direzione che gli è sempre stata congeniale e che lo ha fatto grande: quella di lottare per il cambiamento di questa società. Noi dobbiamo guardare al nuovo, dobbiamo aprire le porte del partito a tutti, ai giovani, alle donne, ai lavoratori, ai movimenti. Noi dobbiamo dire venite, venite nel partito, prendetelo, vediamo assieme cosa possiamo fare…”.
A questo punto il discorso trapassa nel canto, Michele intona E ti vengo a cercare, del grande maestro siciliano tanto caro a Moretti, e subito diventa chiaro che il rinnovamento della sinistra, la vera rivoluzione, a prenderle sul serio, sono una “questione religiosa”: presuppongono la “rinuncia a sè” e alla mediocrità (“non accontentarsi di piccole gioie quotidiane), assomigliano a uno slancio estatico (“un rapimento mistico e sensuale”) che necessita di essere sostenuto da un Tu superiore, in qualsiasi modo lo si voglia interpretare (fede in un sistema di ideali, coerenza coi valori, fiducia nella possibilità della fratellanza e comunione fra gli uomini, connessione con anime affini, amorevoli e complici).
Ma una tale altezza è troppo vertiginosa per gli orizzonti mediocri e a volte meschini della politica ordinaria.
Perciò il film si chiude su una prospettiva di sconfitta. Michele sbaglia il rigore che avrebbe potuto aggiudicare la vittoria alla sua squadra e si abbandona allo sconforto e alla nostalgia senza speranza. Ammette di essere deluso dalla vita, grida la sua impotenza e l’impotenza di tutta la sinistra di fronte all’infelicità della gente, che si aspetta una soluzione da una forza che investe di aspettative ma allo stesso tempo teme. Rivendica l’uguaglianza e la diversità dell’identità propria e del suo partito, e, nella concitazione parossistica provocatagli da tale stato d’animo, finisce fuori strada.
A questo punto tutti gli attori, compresi Michele adulto e Michele bambino, invadono la scena e tendono la mano verso la sagoma di un grande sole arancione che un’impalcatura solleva verso l’alto. Ma alla solennità lirica di tale trasporto fa da contrappunto un ghigno a metà fra la risata e lo sberleffo del bambino che perde l’equilibrio.
Il sole che nel finale di Palombella ascende titubante, nel finale del Sol dell’avvenire trionfa in tutto il suo splendore, ma …trasposto in una dimensione surreale, che per definizione si colloca al confine fra esperienza sensibile e mondo dell’inconscio, relazioni sociali e vita interiore, possibile e impossibile, realtà e sogno. Quasi a suggerire che la speranza è possibile, a patto di radicarla in una tenace fede, da alimentare e tenere “alta” anche se talvolta può apparire gratuita, anche se le vicende storiche si incaricano puntualmente e amaramente di smentirla.
Una fede laica, che non teme il confronto con la ragione, anzi se ne alimenta e che costantemente attinge “carburante” dalla frequentazione del patrimonio ideale e valoriale che forma il nucleo di una determinata cultura.
Per accedere a tale fede occorre “aver vissuto”, aver accumulato saggezza distillandola dalla dialettica delle polarità, dall’ineludibile ambiguità dell’esistenza che si dipana, che si fa e disfa incessantemente mentre scorre. Non a caso il Moretti “ottimista” e fiducioso si palesa all’alba dei suoi 70 anni, mentre il trentacinquenne Michele Apicella si consegna al caos e al disorientamento.
Per credere ancora nell’utopia marxista, per “essere comunisti oggi”, serve una buona dose di autoironia e un’altrettanta massiccia dotazione di coraggio visionario, quale solo l’arte (e nello specifico la poesia) sa custodire e veicolare da un animo all’altro.
Si configura pertanto una forma di militanza “colta”, che impugna la penna o la macchina da presa piuttosto che il fucile, che visita e rivisita le fonti dell’ispirazione ideologica e le irradia nel mondo a mo’ di “schizzi e spruzzi” (esattamente come i raggi del sole), le innesta sotto forma di “suggerimento” ed “evocazione” (mai imposizione) là dove meno te lo aspetti: nelle pieghe della realtà quotidiana ordinaria e straordinaria, nella meringa con crema di nocciole come nella pista di un circo, nelle ambascie amorose del dott. Zivago come in una folle corsa sul monopattino nelle strade semideserte di Roma, ma… mai in un paio di sabot.
- Cfr. Diego Fusaro, Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith interpreti di Marx, Il Prato, Padova 2005. ↑
- La frase “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, resa celebre da Marx ma in realtà attinta dagli Atti degli Apostoli, esprime l’essenza della società comunista ideale, laddove gli uomini non saranno più obbligati al lavoro, ma ognuno potrà esprimere e realizzare se stesso secondo le proprie capacità e attitudini. Ci piace riportare integralmente il passo di Atti 4, 32-35, in cui è riscontrabile un impressionante parallelismo con il modello comunista: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.” ↑
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!