Praticare l’empatia

Nel contributo pubblicato nel n° 14 di Passaggio in volo, ho condiviso l’incipit della ricerca svolta in occasione della tesi di Master, in cui ho sottoposto ad analisi critica il costrutto dell’empatia, al fine di individuarne il “fondamento filosofico”. In filosofia “fondare” non può significare che “giustificare criticamente”, ovvero testare la coerenza logica e la pregnanza ontologica di un concetto, al fine di rinforzarne la credibilità e l’efficacia.

La mia ricerca, pur dipanandosi su un terreno espressamente speculativo, ha perseguito lo scopo di mettere in evidenza la struttura fenomenica dell’empatia per chiarirne i meccanismi di funzionamento e la spendibilità pratica, sul piano sia quotidiano che professionale.

Non è possibile ripercorrere le tappe di tale indagine nel breve spazio di un articolo. Preferisco quindi riassumere la parte conclusiva del lavoro, in cui metto in evidenza i risvolti pratico-esistenziali dell’empatia. Nel fare ciò, mi sono riferita espressamente ad un testo che trovo intenso ed illuminante: Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, di Laura Boella, filosofa e divulgatrice, docente di filosofia morale all’università di Milano, che nei suoi libri ha spesso sviluppato il tema delle relazioni intersoggettive e dei sentimenti di simpatia, empatia, compassione, focalizzando l’attenzione sullo studio del pensiero femminile del Novecento.

Complessità del movimento empatico

La dimensione concreta e quotidiana dell’interpersonale è al centro della ricerca di Laura Boella. Coerentemente con l’approccio fenomenologico e con il suo personale interesse per l’impatto esistenziale della narrazione filosofica, l’Autrice esplora l’esperienza dell’altro in tutta la sua complessità e ricchezza, quale orizzonte ineludibile ed onnicomprensivo di esplicazione dell’umano: “l’essere in relazione è l’orizzonte entro il quale si manifesta la totalità dell’io, entro il quale il soggetto si presenta nell’interezza delle sue esperienze”[1].

In tale ottica l’empatia si configura quale chiave di volta e fondamento dell’intersoggettività, ovvero della dimensione comunitaria del vivere, del “nostro esistere insieme agli altri”. Essa “mette in contatto con la ricchezza infinita dell’esistenza di altri accanto a noi”[2] e soprattutto è la via maestra per “accedere all’intera persona dell’altro”[3], costituendosi come “condizione di possibilità dei sentimenti di simpatia, amore, odio, pietà, compassione, nonché delle molteplici forme di comprensione degli altri”[4].

La tesi principale della trattazione di Boella è che l’empatia consista nel “riconoscimento dell’altro come persona”, ovvero nell’accesso all’integrità ed interezza della sua personalità[5].

“L’empatia mette in relazione con l’intero della persona, con la profondità costitutiva di un’individualità vivente, che oltrepassa la mia sfera di esperienza e non è riducibile a ciò che di essa, di volta in volta, appare a me o che io sono in grado di cogliere”[6].

L’empatia mette in relazione con la totalità della persona in una duplice direzione: la sua estensione (le inesauribili sfaccettature del suo modo di essere e componenti della sua personalità), la sua profondità (la complessità dei suoi moventi, l’imprevedibilità delle sue reazioni, risposte, comportamenti). In altri termini, permette di coglierne (lambire, non catturare) l’”ulteriorità”.

Per tale motivo esige l’esercizio di un’attenzione particolare, forgiata da sensibilità, ascolto, immaginazione, rappresentazione. Richiede l’integrazione e il potenziamento di tutte le nostre facoltà, inerenti alla sfera sensibile, intellettuale, spirituale; presuppone “una fine modulazione del rapporto tra corpo, emozioni, vita della mente”.

Ben lungi dall’essere un’esperienza immediata, non si identifica con l’immedesimazione o la compassione. E’ un atto conoscitivo sui generis, sostanziato al contempo di intuizione, sensibilità, intelligenza.

“L’empatia è il fondamento di tutti gli atti (emotivi, cognitivi, volitivi, valutativi, narrativi, ecc.) con cui entriamo in rapporto con un’altra persona. L’empatia è cioè il modo specifico in cui “incontriamo” l’altra, l’altro, ci rendiamo conto che i suoi occhi “parlano”, che non solo le sue mani, ma anche il suo cuore “trema”, che non solo il suo volto è inciso dalle rughe, ma che lei, lui “si sente” vecchia, vecchio. Per “renderci conto” di tutto questo, attiviamo l’intera nostra sensibilità e l’intera vita della mente: sensibilità e vita della mente che, integrate e fondate nell’ambito dell’empatia, acquistano caratteri specifici. Le attività cognitive si colorano emotivamente, le emozioni sviluppano un’intenzionalità verso ciò che sta fuori dell’io, che le rende modulabili e dotate di effetti di conoscenza e di guida dell’agire”[7].

In altri termini l’empatia è un “lavoro”: un impegno conseguente all’esplicitazione di una scelta.

Tale scelta si radica nell’assunzione della struttura della relazione interpersonale, ma la raffina, la sviluppa nel senso dell’autentica reciprocità.

Boella si richiama espressamente all’analisi di Edith Stein nell’identificare l’essenza dell’empatia quale esperienza personale del vissuto estraneo. “Questo è il paradosso e il miracolo dell’empatia: faccio esperienza interiore di un’esperienza che non è la mia, vivo un sentimento che non è il mio”[8]. Ritroviamo in questa definizione tutta la pregnanza della dialettica “originarietà/non originarietà” enucleata da Stein ed altresì riferimento esplicito alla dialettica io/altro, immedesimazione/distinzione.

“Empatia vuol dire allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere il dolore, la gioia altrui, mantenendo la distinzione tra me e l’altro, l’altra. Empatia è “rendersi conto”, cogliere la realtà del dolore, della gioia di altri, non soffrire o gioire in prima persona o immedesimarsi… L’empatia attesta dunque la possibilità della circolazione o comunicazione dell’esperienza non perché due soggetti diventino uno, si confondano o trovino un’analogia e un’identità misteriosa, ma perché è possibile avere accesso alla realtà vissuta di un altro essere umano”[9].

L’empatia è il luogo dell’intreccio fra mondo dell’Io e mondo dell’Altro, realizza il paradosso e il miracolo della “condivisione nell’indipendenza” (equiparabile al “come se” di Rogers), rende possibile la compenetrazione delle esperienze. Come già evidenziato, essa è l’orizzonte dell’interdipendenza o intersoggettività (tema tipicamente fenomenologico).

Il primo livello dell’interserzione è l’incontro dei corpi. Boella riprende fedelmente il tema husserliano del “corpo vivo” quale esperienza originaria che consente la trasposizione analogizzante da cui scaturisce l’empatia, “punto di partenza indispensabile per innescare il movimento dell’empatia”[10].

“L’altro si presenta come un corpo… Il corpo dell’altro non è solo una cosa tra le cose, ma è un corpo vivo… L’esistenza dell’altro ci viene incontro, insieme, come corpo fisico-organico e come corpo vivo animato da una vita psichica… L’empatia si fonda su un’esperienza di passività e interdipendenza corporea inestricabilmente connessa alla percezione visiva del corpo di un’altra persona”[11].

La propriocezione del mio corpo giustifica la costituzione in me del “senso dell’estraneo” come analogo a me attraverso Paarung (appaiamento o associazione): l’esperienza immediata della mia “vivezza” (identità psico-fisica) mi induce ad attribuire la stessa prerogativa ad un essere estraneo che si presenta con una struttura analoga alla mia.

“Io sento il mio corpo vivo con la massima immediatezza, sento il mio corpo che si muove, che ha sentimenti e stati d’animo, è fonte di atti di volontà e di decisioni di agire. Il corpo vivo è infatti il luogo della vita psichica con il suo tipico intreccio di processi fisici e spirituali… Accade che quando un altro irrompe nel mio spazio visivo, io gli attribuisca un corpo vivo”[12]. “Il mio corpo vivo e il corpo vivo dell’altro sperimentano un funzionamento simile del loro stile corporeo, tattile, uditivo, visivo e propriocettivo, del loro comportamento incarnato nel mondo e delle loro abitudini e atti affettivi”[13]. “Due soggetti si interpellano l’un l’altro risvegliandosi alla vita concreta intersoggettiva, già nel momento in cui, per vie organico-funzionali, vivono una situazione di interdipendenza”[14].

L’intreccio psicofisico costituisce quindi la “relazionalità originaria” che connette gli individui nell’interdipendenza a livello inconscio, sul piano organico-funzionale: sintesi passiva, su cui si innesta l’empatia, quale “complesso delle operazioni coscienti che sfidano l’inaccessibilità dell’altro”, equiparabile a una sintesi attiva[15].

L’appaiamento tuttavia è già abitato dall’asimmetria, attraversato dalla dialettica. Esso permette di fare esperienza simultaneamente della somiglianza e della differenza: è sintesi di similitudine ed estraneità, identificazione e disidentificazione. L’analogo non è l’identico, l’altro non è qualificabile tout court come alter ego (“corto circuito” troppo frettoloso istituito da Husserl). L’altro che mi appare nel corpo (e nell’espressione, sua manifestazione primaria) non è la mia copia conforme, frappone fra se stesso e me un’opacità insuperabile costituita dall’”ingombro” del suo corpo e correlativamente dall’enigmaticità della sua anima.

“Il corpo che l’altro mi dà a vedere ha qualcosa di spesso e di opaco, una pienezza che è dell’ordine dell’indefinito. Posso infatti vedere sempre più lontano, ma mai passarlo da parte a parte, attraversarlo. La sua differenza pone una barriera alla presa diretta da parte dei miei sensi… E’ proprio questo che io sperimento dell’altro: il suo non essere il mio sosia, il suo sottrarsi alla presa, l’accesso sbarrato a qualcosa, a molto di lui… La differenza (che sotto alcuni profili appare come inaccessibile) è dunque innanzitutto l’esperienza che io ho dell’altro. Il che vuol dire, per nulla paradossalmente, che la differenza inizia a strutturare l’incontro con il corpo dell’altro. Nella forma di possibili somiglianze o analogie con la mia esperienza, o semplicemente del richiamarsi vicendevole, del rimando tra ciò che è direttamente percepito e il suo orizzonte implicito. In fondo, nell’incontro dei corpi non si gioca un conflitto assoluto tra differenza, inaccessibilità dell’altro e identità. L’io e l’altro non sono né totalmente differenti, né assolutamente identici”[16].

E’ questa polarità dinamica che rende possibile l’incontro, strutturandolo come emozione, nel senso letterale di “uscita da sé”, “mescolanza di invasione e di abbandono”[17]: non solo e non necessariamente “trauma”, ma anche stupore, sorpresa, “curiosità”, che stimola il nascere di una ricerca.

Nell’incontro e nel suo approfondimento, la differenza da ostacolo alla condivisione si traduce in progressivo “disvelamento dell’accessibilità”: apre all’attingimento di una “profondità” inedita, impossibile nell’isolamento, raggiungibile nella condivisione.

Confrontandoci “l’uno attraverso l’altro, ci accorgiamo di essere depositari di una profondità di cui era impossibile accorgersi da soli. Come se avvenissero degli scivolamenti dell’uno verso l’altro, un investimento di reciproche onde di senso…”[18]. “La somiglianza originaria non annulla tuttavia la differenza tra l’io e l’altro e rivela a ciascuno una nuova profondità del proprio corpo, perché avviene in seguito a un gioco di esperienza diretta (la passività corporea) e indiretta, immediata e mediata. Mi sento originariamente apparentato all’altro, lo interpreto come a me somigliante, ma ciò non significa che mi impadronisca dell’altro o che lo scopra come il mio duplicato, perché allo stesso tempo vengo portato fuori dal legame diretto con il mio copro, esposto a qualcosa che non riuscirò mai a rendere “mio””[19].

La dinamica dell’incontro implica dunque un “duplice riconoscimento”, un “doppio movimento di uscita da sé e di restare in sé”. L’incontro, già al livello basico dell’interazione corporea, dispiega la dialettica identificazione/estraneazione, appartenenza/alienazione, istituisce quel riconoscimento reciproco che è l’essenza della corrispondenza.

La ricerca di senso

L’ incontroha bisogno del volto”. L’altro si offre alla mia sensibilità e si espone alla possibilità della mia comprensione (che, inevitabilmente, è anche possibilità di fraintendimento) attraverso l’espressione: l’atteggiarsi del corpo in modalità riflettenti in modo immediato l’emozione vissuta.

Abbiamo già esplorato la centralità del volto in Lévinas, che ha fatto di esso “il varco verso un’alterità infinita” [20]. Boella individua il limite di tale posizione nell’esclusione della dimensione concreta della relazionalità umana[21] e formula un approccio al fenomeno “espressione” che recupera e valorizza pienamente tale concretezza, pur mantenendone la funzione “allusiva” all’ulteriorità.

“L’espressione è il modo speciale, proprio del corpo, di apparire nella sua indissolubile unione con l’anima, la capacitò propria del visibile di fare da ponte verso l’invisibile… mi comunica in un istante l’interezza della persona”[22]. L’espressione è il ponte fra il visibile e l’invisibile, il sensibile e lo spirituale. Non per nulla si dice che “il volto o gli occhi sono lo specchio dell’anima”. Difficilmente una persona riesce a dissimulare nell’espressione la reale emozione che sta provando.

Per tale motivo, l’espressione sollecita la nostra “apprensione emotiva”, stimola l’attivazione del canale intuitivo-emotivo (“l’intensità del nostro sentire”) quale tramite al riconoscimento dell’altro[23].

Ma l’espressione non esaurisce l’interezza della persona: la offre all’intuizione, la immette nella comunicazione, apre uno squarcio di possibile apprensione sintetica di essa, ma rinvia sempre e comunque al mistero in cui l’individuo si inscrive.

“L’espressione è il modo in cui il dolore sul volto dell’altro mi viene dato anche nel suo profilo impenetrabile, enigmatico, segreto, simulato”[24]. “In realtà, l’altro mi compare davanti nella sua interezza, come corpo e come anima, nel suo apparire e nello stile singolare e irripetibile attraverso il quale ciò che appare di lui si prolunga verso l’ignoto e l’invisibile. I miei occhi dunque, a un tempo, vedono e non vedono, le mie orecchie sentono e non sentono, come se mi apparisse, mi si manifestasse nell’esperienza sensibile qualcosa che appartiene all’essenza propria dell’altro, che ha anche una serie di manifestazioni fenomeniche, ma non ha nulla a che vedere con ciò di cui posso fare esperienza in presenza, perché non posso attrarla compiutamente sotto il fascio di luce della mia coscienza e quindi controllarla, dominarla, almeno dal mio punto di vista. “Rendersi conto” del dolore sul volto dell’altro ha qualcosa di simile all’esperienza dell’altrove, come se io sperimentassi un’eccedenza di ciò che percepisco”[25].

L’espressione non offre alla conoscenza compiutamente l’interezza della persona, perché l’essenza dell’altro non si esaurisce nella manifestazione fenomenica.

L’”anima” dell’altro è inesauribile e in quanto tale inattingibile: nel suo contenuto completo e nei suoi significati ultimi, si sottrae alla coscienza e forse anche all’autocoscienza. L’individuo sporge essenzialmente, costitutivamente, “verso l’ignoto e l’invisibile”. Risiede ed agisce in lui un’ulteriorità, una trascendenza, irriducibile a tema, inafferrabile dalla conoscenza concettuale: il nucleo impenetrabile che è il suo “sacro”, anzi il “sancta sanctorum” per essenza riservato ed esclusivo , cui è possibile accedere solo eccezionalmente e con “atteggiamento sacerdotale”, cioè con circospezione e venerazione. L’incontro con l’altro è sempre un’ “esperienza dell’altrove”.

E’ evidente l’affinità di questa posizione con quella levinassiana. La differenza fondamentale, invece, a mio avviso, consiste nell’atteggiamento opposto assunto da Lèvinas e Boella di fronte al mistero dell’inafferrabilità dell’altro: il primo si appella alla mediazione insindacabile del Sacerdote primo e sommo (YHWH) che istituisce d’imperio (o de facto) la connessione fra separati attraverso l’obbligo della responsabilità, la seconda si affida all’affinamento e potenziamento delle facoltà squisitamente umane (intuizione, attenzione, immaginazione, intelligenza) per instaurare un percorso di ricerca che elegge l’uomo a sacerdote di se stesso.

La multi-significatività e l’ambiguità dell’espressione sollecitano un processo di ricerca di senso, che iniziando dall’attenzione attraversa l’immaginazione ed approda ad un arricchimento dell’esperienza individuale e comune.

Le emozioni dell’altro non hanno un’evidenza “oggettiva”, sottendono la specifica concatenazione di vissuti (sensazioni, valori, decisioni, azioni) che rendono l’identità di ciascun individuo unica.

“Si tratta di un provenire dell’azione dal volere, del volere dal sentire, dell’espressione dal vissuto, in una concatenazione di senso, che è il modo concreto e sempre diverso in cui ognuno vive il passaggio da un momento all’altro della totalità dell’esperienza… E’ il rapporto “vissuto” tra le esperienze che permette di comprenderle e dare loro un’unità. C’è una risonanza tra sensazioni corporee, stati d’animo, intenzioni pratiche e spirituali, una sorta di eco tra queste diverse forme di risposta di un soggetto a ciò che gli accade, che spiega la modulazione, sempre diversa, dell’intreccio di corpo e anima… Nel ritmo, nella misura che si instaura in questo sistema di echi e di risonanze si cerca il filo conduttore che fa da guida, orienta e dirige. La ricerca del “senso” e dei passaggi che fanno maturare o avvizzire uno stato d’animo, un’emozione è il modo in cui comunichiamo con gli altri, li comprendiamo, e spesso per questa via arriviamo a conoscere meglio noi stessi”[26].

L’espressività è la soglia dell’empatia[27]. Dal coglimento dell’espressione bisogna fare un passo verso la comprensione del “rapporto vissuto tra le esperienze” proprio di ogni interlocutore. Ciò necessita dell’esercizio dell’attenzione. “E’ necessaria molta attenzione per trasformare l’espressione percepita sensibilmente in vero e proprio accesso all’individualità di un altro”[28].

Se l’anima è in sé intangibile (ha profondità insondabili) e il “corpo vivo” è un processo di sviluppo indefinitamente aperto, di essi non si dà mai conoscenza oggettiva e definitiva, ma solo relativa, approssimativa e in costante evoluzione: tratti costitutivi della “ricerca”, del sapere come “critica” orientata alla messa in questione del dato e al disvelamento progressivo (potenzialmente infinito) di orizzonti di intelligibilità sempre più significativi[29].

L’incontro con l’altro, che in prima battuta si configura come esperienza sensibile ed emotiva, rinvia ad una ricerca di senso che è un processo cognitivo ed ha nell’attenzione il proprio presupposto imprescindibile.

L’attenzione è un frutto della “curiosità”: si instaura laddove nasce il desiderio di capire i moventi dell’altro, o meglio di acquisire consapevolezza del complesso di “desideri, bisogni inconsci, piaceri, gusti e disgusti”[30] che costituiscono il cuore pulsante della persona come “centro vivente di esperienza” e ne determinano i comportamenti.

L’attenzione consiste essenzialmente in un’”immersione nell’esperienza altrui”, nel trasferirsi nel “luogo d’origine” delle emozioni vissute dall’altro, “come se” si fosse l’altro: è quindi un movimento di “immedesimazione” che però non annulla la differenza fra il sé e l’altro, rifugge la fusione (peraltro ontologicamente impossibile).

“Cercare di chiarire a se stessi lo stato d’animo nel quale l’altro si trova implica seguirne il decorso, andargli dietro, dedicarsi, forse abbandonarsi a esso. La gioia dell’amico si presenta diversamente: non mi rivolgo a essa come a una manifestazione della gioia in generale, ma le entro dentro, vado nei pressi e nel posto in cui il mio amico sta vivendo la sua gioia. Avviene uno spostamento verso l’amico, un’attrazione verso di lui, un essere trascinata dentro la sua esperienza, un accompagnarla e viverla “quasi che” fosse la mia esperienza. Come se capire i motivi della gioia del mio amico fosse possibile solo all’interno del suo orizzonte o contesto di intenzioni ed emozioni. Una volta concluso questo strano movimento, si ripristina tuttavia la distinzione tra me e lui: la gioia dell’amico torna a essere la sua gioia. Io però non sono più la stessa, ho accolto in me la gioia di un altro”[31].

Lo “strano movimento” dell’attenzione coincide con quello che Edith Stein identifica come il momento centrale dell’atto empatico: il “riempimento” della “presentificazione”, possibile solo attraverso il trasferimento nel vissuto dell’altro, il coinvolgimento senza riserve del soggetto nell’oggetto; coincidenza istantanea che rappresenta l’acme della compartecipazione all’esperienza altrui, ma che per sua stessa natura non può estendersi oltre l’attimo, deve ineluttabilmente sfociare nella presa di distanza necessaria a trasformare l’attenzione in comprensione, ad introiettare il contenuto conosciuto nel proprio patrimonio concettuale (fase della chiarificazione).

“Sappiamo che si tratta di un specie di gioco delle parti che scombina alquanto la distinzione tra l’io e l’altro e ripropone il movimento dello slancio in avanti e in fuori tipico dell’empatia. Il soggetto che empatizza vive infatti qualcosa che assomiglia all’esperienza in prima persona, che ha tutta l’intensità del sentire, ma è guidata interamente dal vissuto dell’altro, ne segue il decorso, ne assume il contenuto. Si potrebbe dire che il soggetto, in questo particolare momento dello sviluppo dell’empatia, si dimentica di sé. In realtà, non si dissolve affatto nell’altro. Il suo rapporto con la gioia dell’altro è infatti indiretto, non arriverà mai a fondersi con essa”[32].

La valorizzazione della dialettica estraneazione/ri-appropriazione, uguaglianza/differenza, identità/alterità[33], l’enfasi posta sul “come se” e sul “quasi che”, la sottolineatura che l’empatia non è identificazione con l’altro ma presuppone e rinforza la centratura su di sé, l’auto- appartenenza ed auto-conoscenza fino all’auto-trascendimento, sono trasversali alla riflessione sull’empatia che si sviluppa nell’alveo della filosofia fenomenologica e della psicologia umanistica, accomuna i tre autori cui ci riferiamo (Husserl, Stein, Rogers) quali illustri esponenti di queste scuole di pensiero.

La descrizione dell’empatia quale “gioco delle parti”, “scambio incessante tra l’io e l’altro”, “circolazione di esperienza” è una variazione sul tema dell’empatia quale “trasposizione di esperienza” e “dialettica relazionale incessante, costitutivamente aperta”, cavalli di battaglia della fenomenologia e nozioni messe incisivamente a fuoco da Edith Stein.

Boella tuttavia “va oltre” le formulazioni già esplorate, aggiungendovi un proprium che ne potenzia l’efficacia: la centralità dell’immaginazione.

Centralità dell’immaginazione

“Il fenomeno dell’espressione… ci ha immessi nella vastità delle emozioni e dei loro valori e significati, nello spessore di invisibile insito nelle apparenze sensibili che ci circondano… ci ha guidati verso un cerchio di passaggi fluidi, “vissuti” e concatenati gli uni agli altri, tra esperienze corporee, emotive, volitive, cognitive di un individuo”[34]. Per ricondurre ad unità tale molteplicità di stimoli, interpretandoli quali manifestazioni significative di un’identità, ed attingere, quanto meno “prefigurarsi”, il loro senso intimo, tanto aderente all’altro quanto estraneo alla nostra esperienza, è necessario un “salto” cognitivo, che può essere trainato solo dall’immaginazione.

Boella definisce l’immaginazione “l’attività mentale intrisa di emozione che permette di riprodurre interiormente un’esperienza altrui”[35]. Essa è un processo al contempo emotivo e cognitivo. Ha l’immediatezza dell’emozione, in quanto permette di rivivere in sé un sentimento o un’esperienza, “trasferendosi” in essi. Ma si distacca dai processi di proiezione e immedesimazione, perché è mediata dalla riflessione[36].

Assume eminentemente la forma del “rallegrarsi, addolorarsi al pensiero di”. E’ una forma di “presentificazione”, nel senso letterale di “rendere presente l’assente”, che ha punti di contatto con l’esperienza del ricordo, ma si differenzia da essa per il fatto di non agganciarsi a vissuti già sperimentati in prima persona. Consiste in “variazioni di prospettiva, cambiamenti di ottica”, che potendo riferirsi solo parzialmente o indirettamente ad esperienze personali, hanno necessariamente il carattere di riproduzione libera ed astratta.

Nella comprensione empatica l’elaborazione dell’immaginazione non è però arbitraria: è guidata dalla percezione sensibile (dall’apprensione immediata di ciò che dell’altro si mostra alla vista, all’udito, al tatto) e con essa si confronta incessantemente per verificare la propria veridicità[37]; si basa inoltre sul confronto con le proprie esperienze passate e sulla capacità di sintonizzarsi con l’altra persona.

Quest’ultima è una facoltà sottile, intuitiva, extra-sensibile, che si colloca al di là della dicotomia cognizione/emotività, sul terreno dell’intesa “energetica” o spirituale.

L’immaginazione è quindi una forma sui generis di presentificazione, risultante ancora una volta dall’integrazione di sensibilità, intelligenza, emotività, spiritualità, con l’aggiunta di un ingrediente “speciale”: la fantasia.

Boella non introduce espressamente questo elemento, ma vi allude indirettamente quando nel descrivere la natura della comprensione empatica si riferisce all’”immaginazione narrativa” od utilizza le metafore della scrittura e del teatro.

“Proviamo a seguire da vicino che cosa avviene quando “mi metto nei panni, al posto dell’altro”. Sottomettersi all’arbitrio dell’altro… non ha nulla a che vedere con il “capire” che cosa prova l’altro. Più verosimile è che si sentano risuonare dentro di sé echi della psicologia dell’altro. Si tratta di connessioni che non vanno seguite con eccessiva fiducia, perché facilmente depistano… Inizia piuttosto una ricerca nel profondo di sé di qualcosa che dia vita e carne a una persona. Si esplorano le proprie possibilità di essere raggiunti da qualcuno, di accogliere e ospitare un’altra qualità di esperienza. In gioco è la capacità di trapianto di qualcosa di sé, non per ritrovare se stessi, ma in attesa dei frutti che possono venirne in un nuovo terreno. Quando si parla del ruolo dell’immaginazione nell’empatia, frequente è il riferimento all’attore o allo scrittore, che si trasferiscono in un personaggio e compiono con lui, per poi suggerirlo allo spettatore e al lettore, un viaggio in mondi lontani o imprevisti dell’esistenza”[38].

Trovo che il paragone con l’esperienza teatrale sia particolarmente efficace nel suggerire il tipo particolare di “trasposizione di esperienza” che avviene nell’empatia, la natura dell’”esperienza dell’estraneo” in cui essa consiste.

Il lavoro dell’attore prima dell’andare in scena consiste nel “cercare il personaggio”. Nell’”emozione dell’incontro” con il nuovo carattere che si trova a dover rappresentare, egli dapprima si concentra sulla risonanza in cui entra con esso: presta attenzione a “come risuona” nel profondo di sé quella tipologia di personalità, cosa evoca in lui quel modo di essere, in termini di corrispondenze (ciò che combacia) ed incompatibilità (ciò che stride); in seconda battuta cerca di modificare se stesso in modo da aderire alla “nuova qualità di esperienza” che il personaggio gli ispira, si mette alla ricerca dell’espressività (gestualità, tono di voce, stati d’animo, emozioni, pensieri) che meglio ne “traduce” l’essenza, la rende comunicabile, comprensibile dagli spettatori; compie questa ricerca “per tentativi ed errori”, sperimentando modi di interpretare, anche con l’ausilio di uno specchio esterno (il regista), finché “sente” di aver colto nel segno, di aver “trovato il personaggio”, nel senso che lui e il personaggio si sono identificati, hanno “sovrapposto” le reciproche esperienze.

E’ esattamente questa la “trasposizione d’esperienza” che avviene nell’empatia: il “trapianto in sé” di qualcosa di nuovo, l’accoglienza nel proprio intimo di una qualità diversa d’esperienza, il trasferimento reciproco di vissuti, che porta alla nascita di una nuova storia, alla trasformazione tanto di sé quanto dell’altro.

L’empatia instaura uno scambio interattivo continuo fra sé e l’altro[39], un “andirivieni incessante”, che assume i contorni tanto della peripezia quanto dell’avventura, porta a “perdersi” nell’abbandono dei lidi conosciuti, nella messa in questione dei modi di essere usuali, e a “ritrovarsi” nell’approdo a nuove terre e nuovi cieli, nella possibilità di sperimentare forme di vita straordinarie, afferenti all’alterità e all’ulteriorità.

Altra metafora altamente suggestiva applicabile al fenomeno dell’empatia, è quella della “traduzione da una lingua all’altra di un testo poetico o letterario”[40]. “Il traduttore deve rendere riconoscibile o preservare il movimento che in una poesia o in un romanzo porta a una visuale nuova e imprevista sulle cose… Occorre intuire, immaginare il percorso della mente del poeta nel suo sforzo espressivo… e restituirlo come traccia vivente perché parli anche in una nuova lingua. Tra sé e un altro le esperienze passano infatti come parole straniere che vengono tradotte, perché risorgano, rinascano altrove, con un altro corpo e un’altra carne”[41].

L’integrazione dell’esperienza dell’altro nella propria è una traduzione, un trasferimento da un luogo all’altro, da una lingua all’altra, che produce un cambiamento: consente un ampliamento di orizzonti, una variazione di prospettiva, che prelude alla rigenerazione dell’esperienza, alla rinascita o conversione personale. In questo senso “la traduzione è resurrezione”.

“Mettersi nei panni dell’altro vuol dire sperimentare se stessi al di là delle vie battute, al di là dei propri confini. Ciò che appunto fa l’immaginazione, ampliando lo spazio di movimento dell’io, che prova a dirigersi verso l’esperienza dell’altro, si trasferisce presso di essa, accetta di esserne trascinato dentro e se ne lascia guidare. L’immaginazione è decisiva in questa traduzione che è una resurrezione… Colui che immagina non è un soggetto isolato, al contrario, sta allargando la sua mente, sta “mettendosi nei panni dell’altro”. L’immaginazione che permette la traduzione delle esperienze dà esatto significato a questa espressione molto usata, ma anche vaga. Essa lavora come una forma di amore. Come l’amore, di cui si dice essere cieco, ma che, in realtà, vede di più e oltre ciò che è visibile, l’immaginazione usa la propria libertà rispetto alla realtà sensibile anticipando uno sviluppo ideale e di valore di sé e dell’altro. In questo senso, l’immaginazione è già un frutto creativo della relazione, è percezione più viva della pluralità di sbocchi di ciò che è accaduto in un incontro, è sguardo d’insieme che mette in discussione il semplice gioco delle parti tra l’io e l’altro, alza la posta a un valore, un’idea, un’utopia, una passione che può nascere e crescere trai due”[42].

L’immaginazione è “pensiero allargato”: sguardo acuto e lungo, focalizzato sull’invisibile e proiettato al futuro; prefigurazione ed anticipazione dell’”oltre”.

La visione d’insieme scaturisce proprio dall’integrazione dei punti di vista. Nella pratica dell’empatia, incentrata sull’affinamento dell’attenzione e sull’esercizio dell’immaginazione, l’io supera i propri limiti, conquista profondità e prospettiva[43]. Ciò avviene esattamente grazie all’accoglienza in sé dell’esperienza dell’altro, all’assunzione consapevole e radicale dell’intersoggettività quale struttura (“apriori ontologico”: vedi Husserl) dell’esistere nel mondo.

L’immaginazione è ampliamento dell’io e inclusione dell’io e dell’altro in uno sviluppo comune e ulteriore.

“Molteplici sono gli strumenti di cui si serve l’immaginazione. La fine ricettività nei confronti di tutto quanto ci circonda, la capacità di scorgere analogie, di bilanciare e cogliere rapporti, misure, proporzioni e sproporzioni. Si tratta di dispositivi che attingono a un fondo di sé fluido, che è già contatto con ciò che lo oltrepassa – con il mondo, con l’essere – e in cui l’altro allora è ospite e compagno. L’integrazione dell’esperienza dell’altro nella propria… è passaggio , ma anche oltrepassamento…. L’io ha oltrepassato il confine della propria esperienza, perché non accetta la separazione totale. Per questo motivo si è specchiato nell’altro: invece di trovare solo la sua immagine riflessa, ha oltrepassato una soglia e ha trovato un alto essere, abitante dello stesso mondo e portatore di nuove, sconosciute esperienze. Non ha completamente abbandonato se stesso. Ha compiuto un movimento indiretto, di trasposizione e trasferimento altrove di qualcosa di sé. In tale movimento, l’altro, l’estraneo non si è dato come totalmente separato, ma in relazione. A questo punto, l’io si riconosce abitato – e diviso – da ciò che è proprio e da ciò che è estraneo. Nasce la possibilità di intendersi, di conoscersi e di capirsi reciprocamente, di orientare il proprio giudizio nel labirinto di ciò che accade”[44].

L’empatia è una “traduzione” di esperienza, nel duplice senso di “trasferimento” e di “oltrepassamento”.

L’auto-trascendimento del sé implica uno “sfondamento” dei suoi confini che va nel senso di un ampliamento di prospettiva e un’espansione di esperienza, ma non implica l’annientamento di sé (ventilato come possibilità estrema dall’etica della santità di Lèvinas). L’io si oltrepassa senza abbandonarsi, si trascende restando in sé, si proietta nell’altro conservando la propria consistenza (o subsistentia). In tale ottica, trova conferma l’irriducibilità dell’io, ma l’io si configura come “plurale e pluralistico”, costitutivamente abitato dall’altro da sé: è Io/Altro allo stesso tempo.

Ci sembra che nel precisare questa dialettica, Boella integri fecondamente il postulato della “soggettività trascendentale”, proprio di buona parte della tradizione filosofica occidentale, con quello dell’”intersoggettività trascendentale”, introdotto da Husserl e sviluppato dalla fenomenologia contemporanea.

Trasformazione di sé ed espansione dell’esperienza

La traduzione delle esperienze, operata attraverso l’immaginazione, produce il vero “riconoscimento dell’altro”.

Sentire l’altro è dapprima impressione psico-fisica. Questa apprensione preliminare è elaborata dall’ immaginazione che fa vedere e intuire “oltre”, consente di “sentire, per quanto oscuramente, il legame della tristezza, dell’allegria, dell’entusiasmo dell’altro con la sua storia, la sua cultura, la sua personalità” nonché di esplorare i punti di contatto fra i suoi vissuti, i miei, quelli dell’essere umano in quanto tale e di prefigurare le possibili direzioni di sviluppo degli stessi.

“L’altro non viene quindi “conosciuto” o “compreso” nel senso di un sapere, della raccolta di dati, dell’elaborazione di un giudizio. Viene piuttosto “riconosciuto” come destinatario dell’atto di empatia e insieme come se stesso, centro vivente di esperienza[45].

Riconoscere l’altro (“rendersi conto” dei suoi vissuti, usando la terminologia steiniana) equivale ad accogliere l’interezza e l’integrità della sua persona. “La comprensione dell’altro propria dell’empatia fa pertanto ricorso ad attività del corpo e della mente connotate da una speciale ricettività allo sviluppo armonioso e integrale di un essere vivente. Ecco perché l’empatia produce una conoscenza di tipo specifico, fatta di intuizione e sensibilità, che non costruisce giudizi o sintesi intellettuali, ma mette a contatto con il senso globale e profondo di un essere umano”[46].

Cogliamo in questo passaggio una straordinaria convergenza con la posizione di Lèvinas, laddove sostiene l’”incomprensibilità” dell’altro, nel senso della sua essenziale irriducibilità a tema. L’empatia fa della comprensione dell’altro il suo obiettivo fondamentale, ma, man mano che ne approfondiamo la natura, questo atto si svela ai nostri occhi come comprensione sui generis, irriducibile all’apprensione concettuale, molto distante dal paradigma della conoscenza “scientifica”, astratta e cerebrale. E’ una conoscenza “che non costruisce giudizi o sintesi “, “fatta di intuizione e sensibilità”. Si appella quindi alle proprietà della mente che la rendono elastica e flessibile (immaginazione, “pensiero allargato”, pensiero laterale aggiungerei…) e si muove sulla frontiera fra mente, cuore e corpo, nei punti di intersezione fra sfera intellettuale, sfera emotiva e sfera sensibile.

La facoltà che rende possibile la comprensione “sui generis” tipica dell’empatia è un’intelligenza innervata di intuizione e sensibilità, che non esiterei ad identificare con l’”intelligenza emotiva” messa a fuoco ed esplorata approfonditamente da Daniel Goleman[47].

Boella sottolinea l’imprescindibile connessione fra comprensione empatica e una particolare qualità del sentire, riassumibile nella “sensibilità per la persona”. “Tutto ciò richiede fine attenzione, sguardo che vada oltre le apparenze, interesse e cura, sensibilità per ciò che è vivo e personale, per la persona presa nella sua completezza”[48].

Tale sensibilità va assunta e praticata prima di tutto nel rapporto con se stessi, per poter essere applicata nel rapporto con gli altri[49]. “ Quanto io colgo delle esperienze dell’altro dipende da quanto io posso figurarmi a partire dalla mia propria struttura, dal mio modo di essere. E’ necessario viversi come persona per riconoscere negli altri la qualità di persona”[50].

La comprensione empatica non è un’attitudine naturale, ma un atteggiamento frutto di una scelta e del conseguente impegno per svilupparlo e consolidarlo. “L’empatia deve essere fatta accadere, deve essere praticata… richiede esercizio, impegno, deve essere coltivata come un’essenziale capacità umana. Formare la capacità di sentire l’altro è tanto più importante se si tiene conto della complessità dell’atto empatico e soprattutto dei suoi componenti: l’emozione dell’incontro, l’immaginarsi l’esperienza dell’altro, il vivere una nuova vita facendosi attraversare da quella dell’altro. Ricordiamo che l’empatia inaugura un nuovo rapporto con il mondo cui corrisponde una riorganizzazione dell’esperienza soggettiva. Si tratta di una risorsa vitale e spirituale derivante dal “rendersi conto” della profondità di sé e degli altri”[51].

E’ ben vero che l’io è ontologicamente strutturato come “abitato dall’altro” ed è immerso in un mondo di cui l’intersoggettività è la struttura portante, ma resta sua facoltà aprirsi o chiudersi a tale interdipendenza, assumere e sviluppare la propria profondità nel senso dell’espansione o restarvi imprigionato[52].

Il “lavoro” da fare per imparare ad esercitare l’empatia consiste essenzialmente nell’”attraversare la differenza”[53]. Essere disponibili ad affrontare a viso aperto l’alterità (praticare la “rettitudine del faccia a faccia”, direbbe Lévinas): confrontarsi con essa quale potenziale fonte di stimoli, anche quando assume la veste di lontananza radicale, incompatibilità o addirittura minaccia. Questo è possibile solo si è rinforzata la propria “centratura”, si è lavorato sulla valorizzazione di sé, si è scoperta ed assunta la propria integrità di persona, ovvero la propria autenticità.

In questo senso, l’empatia, prima di essere una competenza tecnica, è, come asseriva Rogers, un modo di essere, poggia non tanto su una serie di conoscenze teoriche e specialistiche, quanto su una sensibilità preliminare, che altro non è se non l’attitudine a “viversi come persona”, a cercare e sviluppare costantemente la propria “autenticità”, ben sapendo che questa ricerca è necessariamente un processo aperto, e quindi parziale, approssimativo, potenzialmente inesauribile. “Nessuno di noi può sapere se ha raggiunto la qualità di persona autentica. Tutti però possiamo essere vivamente interessati a essere persone autentiche e quindi capaci di anticipare idealmente questa qualità nell’altro”[54].

L’amore per sé stessi è il presupposto e il fondamento dell’amore per l’altro: possiamo proclamarlo senza timore di scadere nella retorica, dal momento che in questa massima sembra condensarsi l’essenza di sistemi sapienziali trasversali ai secoli e alle culture, di matrice sia religiosa che filosofica[55].

Amare se stessi equivale ad applicare a sé quella “considerazione positiva incondizionata” che Rogers individua quale qualità fondamentale della relazione terapeutica e che Boella significa col termine “valorizzazione”. “L’empatia ci trasforma perché illumina la posta in gioco morale dell’esistenza e di conseguenza induce a riaprire le porte troppo frettolosamente chiuse, a ridare una chance a eventi che crediamo irrevocabilmente conclusi. Il lavoro fondamentale dell’empatia consiste nel portarci a scorgere nel mondo che ci circonda, per esempio in una folla, un essere umano, una persona dotata di individualità, e non solo esemplari del genere umano. Accade allora che questo significato e valore venga trasposto su di sé. Attraverso la comprensione degli altri… ci rendiamo conto di strati di valore, nostri e degli altri, che scaturiscono dall’essere insieme”[56].

L’empatia innesca un processo di valorizzazione di sé e dell’altro che prende le mosse dall’assunzione del valore inalienabile dell’individualità e si basa sull’intima adesione alla dimensione intersoggettiva dell’esperienza.

“I nostri personali vissuti ora non si rivelano più nel loro esclusivo carattere privato, ma appaiono come pezzi di mondo e rimandano al legame intersoggettivo che fonda l’universo comune di esperienza. La trasformazione di sé che corona l’atto di empatia è un arricchimento di tipo molto specifico, consistente nella crescita e maturazione della verità, della bellezza, della tenerezza dei propri atti. La comprensione dell’altro, che porta a sviluppare l’empatia… innesca una circolazione di senso, diventa l’apertura di uno spazio più ampio di comprensione della realtà e quindi anche di noi stessi”[57].

L’adesione all’intersoggettività si declina in molteplici direzioni di sviluppo. La valorizzazione reciproca è un rispecchiamento virtuoso fra il sé e l’altro, che si dispiega su più piani e porta in generale ad un approfondimento e a un’ espansione dell’esperienza per tutti i soggetti coinvolti nella relazione.

Attraverso l’empatia, ad esempio, può capitare di fare contatto con modi di essere e costellazioni di valori che non hanno mai fatto parte del nostro orizzonte e diventano invece all’improvviso significativi e praticabili anche per noi. Attraverso l’empatia, “possiamo scoprire nuove esperienze”, appassionarci ad ideali ed emozioni che non abbiamo ancora vissuto in prima persona, “immaginarci” in situazioni, ruoli, prospettive che nel ripiegamento solitario su noi stessi non avremmo mai osato rappresentarci.

Ancora: l’empatia può essere un canale privilegiato per ampliare la conoscenza di sé, in quanto ci consente di scoprire aspetti inediti di noi, di gettar luce sulle zone in ombra della nostra personalità e comportamento e sulle potenzialità inespresse degli stessi[58].

L’empatia può innescare processi di “conversione” veri e propri, in quanto il desiderio di cambiare vita è catalizzato dall’incontro con persone che incarnano quello che vorremmo diventare[59].

L’empatia può consentirci di “riscattare la nostra storia”, riaprendo il dialogo con il nostro passato[60] e raccordandone l’eredità con la direzione che vogliamo imprimere al nostro futuro.

Ma soprattutto l’empatia ci insegna a “vivere in profondità”, ad aderire intimamente alle esperienze (di qualsiasi natura esse siano: pratica, emotiva, intellettuale, morale, spirituale), a superare le “resistenze interiori” che spesso bloccano la nostra prassi, la nostra emotività, la nostra progettualità, ci trattengono “al di qua” del sentire, del pensare, del progettare, del sognare, tarpando le ali alla nostra “speranza”. “In realtà, non è così semplice vivere ciò che si sta vivendo: occorre un ribaltamento, un ‘inversione di marcia, direzione e qualità. Bisogna imparare a dire di sì alla profondità del nostro essere, a tutto ciò che ci sta avvenendo, che qualche volta ci viene tolto, che non ci appartiene e da cui dipendiamo perché ci è stato donato e costantemente indicato, fatto esistere dagli altri o da altro, da chi ci ama o dalla bellezza di una poesia. Il compimento del vivere – in tutti i suoi aspetti: pratico e teorico, quotidiano, spirituale – di cui, anche inavvertitamente sentiamo il bisogno, ci viene dato dall’empatia. Essa implica infatti che noi siamo intimamente toccati, afferrati da ciò che viviamo”[61].

L’empatia apre alla possibilità di arricchire l’esperienza, perché dischiude l’accesso alla pienezza intersoggettiva dei vissuti.

L’esperienza individuale in sé e per sé è povera di senso. I vissuti individuali, se astratti dalla trama delle relazioni in cui si attuano, sono lacunosi, precari, esposti al rischio della vacuità e del fallimento. “Ogni nostra ricerca di senso, di compiutezza, ogni desiderare sempre di più si confronta perennemente con l’incertezza e l’imperfezione dei suoi risultati”[62]. Questa “inguaribile inadeguatezza” dell’esperienza individuale (che è predisposizione allo scacco) è la cifra della finitezza dell’uomo, che è irrimediabilmente “gettato” nel mondo, cui è precluso l’Essere ma è concesso l’Esserci. Anzi l’Esserci, il Dasein, in quanto status ontologico dell’uomo, è anche il suo imprescindibile orizzonte di senso: il piano in cui si costituiscono “i sensi”, scaturendo l’uno dall’altro e avvalorandosi in questa interazione. “A questa inguaribile inadeguatezza l’empatia dà l’ordine e la misura dell’esperienza più comune e più intensa: l’incontro con un ‘altra persona”[63].

Nell’orizzonte dell’umano, la relazione è la sorgente e il fondamento del senso. E più la relazione è autentica, più è potente la sua funzione di varco al senso; più è articolata e piena, più vasto è il ventaglio di opzioni di senso ad essa connessi, più numerosi e multiformi sono i percorsi di crescita (inter)personale che essa può innescare. I sensi affioranti dall’orizzonte della relazione, disvelati attraverso il rapporto significativo con altri, danno nuovo spessore e slancio all’esperienza individuale, la proiettano verso sviluppi ideali che si rivelano accessibili e praticabili.

“Un altro, un’altra entra nel mio orizzonte di vita: posso aprirmi o chiudermi all’incontro. Può non accadere nulla, può accadere qualcosa. Inizia in ogni caso un cammino del tutto diverso da quello che compiamo per orientarci e padroneggiare il mondo oggettivo. Da un incontro, da un amore, da un’amicizia, da una relazione epistolare, da una collaborazione professionale, da un rapporto educativo, possono nascere molte cose: uno scambio di parole, una partecipazione affettiva, una poesia, nuove conoscenze, opere e azioni di vario tipo, una scelta di vita – tutto ciò trae la sua autorizzazione dall’esperienza (multiforme) della relazione[64].

L’empatia, proprio in quanto “compartecipazione di esperienza” (integrazione del mondo dell’altro nel mondo dell’io), “quintessenza” della relazione (o paradigma della relazione autentica), è la chiave di accesso al pluralismo dei sensi che rende l’esperienza umana un’avventura degna di essere vissuta: apre all’inesauribilità del senso correlativa alla condivisione dell’esperienza.

“L’empatia insegna che tra gli esseri umani c’è una circolazione di senso per cui ciò che viviamo di persona si completa e si integra con ciò che si apprende riconoscendo ciò che vivono gli altri. Ciò che non ci appartiene, che è fuori di noi e forse anche estraneo, nell’empatia diventa relazione, parola, ascolto. Come se nell’empatia si sperimentasse la possibilità dell’infinito dischiudersi del senso… resa accessibile dalle forme concrete delle relazioni umane. Il raggio di esperienza ampliato che ne consegue torna quindi ad alimentare la nostra vita come energia formativa”[65].

L’empatia ci mette a contatto con lo spessore interpersonale dei vissuti, siano essi passati (le opere materiali e spirituali sedimentate nella struttura sociale), presenti (le esperienze e gli incontri che costituiscono la trama del nostro quotidiano), futuri (i progetti, i programmi, i sogni, le utopie che informano la nostra prospettiva), investendoli del senso dell’”intimità”, rinnovando ad ogni esperienza l’”emozione dell’incontro”.

“Il sentirsi interiormente toccati, che è proprio dell’empatia, il riconoscimento che scaturisce dal fatto che uno si rivolge a me e avverto la sua presenza, è il modello di ogni vera esperienza. Ogni convincimento interiore o conoscenza attraverso libri o discorsi deve trovare compimento in qualcosa che assomiglia al “diventare intimi” proprio dell’incontro tra due persone. Le quali esperiscono una sorta di inconscia e imprevista attesa l’una dell’altra – attesa che giunge a compimento nell’incontro reale senza che questo elimini in alcun modo la differenza e anche l’ignoto tra i due”[66].

L’empatia allude a un modello di intimità che rispetta ed esalta la differenza, per questo motivo si propone quale paradigma della relazione autentica e dell’esperienza “piena”. Questa coincide col “dire sì” a tutto ciò che viviamo, col consentire interiormente alle esperienze che facciamo, con l’aderire ad esse senza residui, riserve o resistenze, in quanto sono le “nostre” esperienze: frutto dell’irripetibile, unica, preziosa combinazione fra l’apporto di senso e di valore messo in gioco dal “nocciolo autentico” della mia personalità e di quella dei miei interlocutori in ogni intreccio relazionale che compone il quotidiano.

Esercizi di empatia

Nella misura in cui l’empatia è un “lavoro”, un impegno laborioso conseguente alla scelta di dedicarsi ad essa, presuppone delle pratiche che possono favorirne l’assunzione consapevole e lo sviluppo congruente. Dato che non ci muoviamo nel campo del sapere scientifico, bensì in quello della “sapienza” esistenziale, appare più consono mettere a fuoco degli atteggiamenti da assumere e soprattutto una sensibilità “preliminare” da coltivare, piuttosto che definire un formulario di comportamenti consigliati o, peggio ancora, precetti, che identificherebbero il training formativo ideale per diventare perfettamente empatici.

Assunto che “perfetti empatici” non lo diventeremo mai, dato che la perfezione non è prerogativa della finitezza e che l’empatia è processo strutturalmente “aperto”, in divenire, approssimativo, che si autoalimenta potenzialmente all’infinito ed assume il rischio dell’”incognito, l’imprevisto e l’indesiderabile”[67], lo sviluppo della competenza empatica va di pari passo con lo sviluppo della competenza relazionale (come più volte sottolineato, anche in questa trattazione), e questa presuppone l’approfondimento della conoscenza e del possesso di sé.

In epilogo al proprio studio, Boella suggerisce una serie di spunti che possono fungere da tracce di una percorso autoformativo alla pratica dell’empatia. Mi permetto di coglierli e di svilupparli in base al confronto con vissuti attinti dalla mia personale esperienza di operatrice sociale, educatrice, artista… cittadina del mondo e della vita da più di mezzo secolo.

1) Conosci te stesso. L’esortazione antica, incisa sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi, è per lo più interpretata quale monito rivolto dal dio agli uomini affinché riconoscano la propria limitatezza e finitezza. Anche sulla scorta delle suggestioni provenienti dagli autori studiati (soprattutto della provocazione rappresentata dalla filosofia di Lévinas), ci piace invertirne il senso ed interpretarla come invito a scoprire e tenere costantemente in considerazione la propria “infinitezza”.

L’io è abitato dall’altro da sé, costitutivamente insidiato dall’”oltre”, che lo “marca stretto” dall’esterno e dall’interno. Per tale motivo, “non si conosce mai abbastanza”, non può mai possedersi, approdare e riposare su una configurazione della propria identità definitiva ed inequivocabile. L’”ombra”, l’altro da sé, sarà sempre pronto a destabilizzare le sue certezze, scompigliare i suoi piani ed anche ad offrirgli opportunità imprevedibili e formidabili.

La famigliarità con l’estraneità, la capacità di accettare anche i propri lati più oscuri o indesiderati, la disponibilità a mettersi costantemente in questione e a “lasciarsi sorprendere” da se stessi, da ciò che di noi emerge come inaspettato ed incongruente dallo sgranarsi della vita, nel bene e nel male, prelude alla capacità di praticare un’analoga apertura verso l’altro.

Per tale motivo ampliare la percezione di sé, o meglio coltivare un’identità “fluida”, sensibile al divenire e pronta istantaneamente al cambiamento è una componente essenziale della “sensibilità empatica”.

“Le illusioni dell’empatia, l’empatia negativa non sono semplici incapacità o errori, bensì momenti di un arduo confronto con l’imprevisto, l’indesiderato, l’inaccettabile della sorte dell’altro. Vivere una relazione mette in gioco… un confronto con quanto dell’accadere è sottratto al nostro controllo, spiazza le nostre aspettative, i nostri canoni abituali di comportamento. Esercitarsi all’empatia significa innanzitutto essere chiamati a un esercizio con se stessi, a correggere e a completare la percezione che ognuno ha di sé, arrivando ad accettare anche la novità e la durezza di possibilità di essere, provenienti dall’altro, che possono entrare in conflitto o indebolire l’idea che, a volte con fatica, ci siamo fatti di noi, ma che non possiamo assolutamente escludere siano presenti nella nostra profondità più intima oppure possano un giorno travolgere la costruzione operosa della nostra identità”[68].

La capacità di “mollare il controllo” è dunque un prerequisito indispensabile all’ampliamento di prospettiva che la pratica dell’empatia esige.

2) Il corpo parla. Un altro prezioso ed efficace esercizio di empatia consiste nel coltivare la famigliarità con il corpo. Tale pratica abbraccia una costellazione di significati, che vanno ben oltre l’attenzione al linguaggio non verbale, cui si suole fare riferimento nei percorsi formativi al Counseling. “Imparare a guardare negli occhi, a sentire il timbro, il suono della voce dell’altro e a modulare il proprio. Fare attenzione anche ai movimenti del corpo, se riescono a parlare prima dell’espressione verbale. Dare la giusta importanza ai bisogni materiali e immateriali di un corpo, all’ordine, al gusto, ai colori di un stanza, di un abito, di un cibo. Il corpo non è solo qualcosa che si possiede, ma è parte costitutiva dell’individualità, dell’essere al mondo di ciascuno. Sapere che una mano sulla spalla, uno stare accanto, senza dire e fare nulla (secondo il significato letterale di “assistere”, stare seduti vicino a una persona), è già relazione”[69] .

La comprensione dell’altro e soprattutto l’attenzione all’altro passano anche attraverso canali sottili, non cerebrali, extra-sensibili ed oserei dire extra-sensoriali, di cui il corpo è supporto e “incarnazione”. Tristemente evidente è l’”incultura del corpo” che affligge la civiltà occidentale e il modo di vivere “postmoderno”. Siamo talmente abituati a non “abitare” il nostro corpo, che ci riferiamo normalmente ad esso con il verbo avere (“ho un corpo”) anziché con il verbo “essere (“sono il mio corpo”).

In realtà “io sono il mio corpo” tanto radicalmente e prioritariamente, che nell’incontro con l’altro il mio modo di apparire (postura, espressione del volto, atteggiamento degli arti, intensità e qualità dello sguardo, tono e volume della voce, modo di vestire) veicola il messaggio reale che l’interezza del mio essere è tesa a trasmettergli, al di là delle intenzioni coscienti.

“Il corpo non mente”. Per tale motivo, preoccupazione prioritaria non solo del Counselor, ma anche di chiunque abbia una vita ad alta intensità relazionale e/o intenda fare della relazione la propria professione o la propria “arte”, deve essere avere cura del proprio corpo, nel senso basico di nutrirlo con gli ingredienti che ne promuovono la salute: alimentazione sana e gustosa, sonno in quantità e qualità adeguate, sesso gratificante e raffinato.

E’ ancora troppo diffusa fra i professionisti della relazione d’aiuto la tendenza a trascurare il proprio corpo, che si manifesta nel non prendersi cura delle proprie malattie o difetti fisici, nel sacrificare le esigenze corporee (come mangiare bene e dormire bene) all’adempimento compulsivo delle incombenze lavorative, nel sottoporsi a stress che fanno saltare l’equilibrio psico/fisico, nel compensare tali tensioni con abitudini poco salutari (come il fumo), nell’eccesso di vita sedentaria connesso ad attività che troppo spesso enfatizzano unilateralmente l’impegno intellettuale, finanche nella sciatteria nell’abbigliamento.

La cura dell’altro esige, come abbiamo già sottolineato, una solida centratura su di sé. Un “corpo forte” , accanto ad una “mente forte”, ne è l’ancoraggio più efficace.

La cura di sé inizia dal trattarsi bene sotto il profilo del soddisfare con attenzione amorevole le proprie esigenze quotidiane: rispettare il proprio bioritmo (tempi di lavoro e di riposo, ciclo circadiano), adottare uno stile alimentare corretto e curato, vivere e lavorare in un ambiente pulito, elegante, accogliente dal punto di vista estetico (“i colori di una stanza”), esercitare il gusto nel vestirsi, praticare regolarmente una sana attività fisica.

Forti di questa integrità e salute corporea possiamo andare incontro all’altro con molta più tranquillità ed attenzione ed anche stimolare in lui, per rispecchiamento (non dimentichiamo che l’empatia viaggia sul canale dell’analogia) , un’analoga presa di coscienza e valorizzazione, che lo possa portare a fiorire in salute e bellezza, cioè ad attingere il fulgore della sua “integrità psicofisica”.

Coltivare la familiarità con il corpo significa anche superare il tabù del contatto fisico : non aver paura a guardare negli occhi le persone, ad afferrare una mano o a regalare un abbraccio per esprimere vicinanza laddove si sente che questo gesto è il modo più efficace in quel momento per farsi presenti ed è desiderato dalla persona che ci sta di fronte, o anche semplicemente starsene in silenzio accanto all’altro nello sfiorarsi delle pelli o degli sguardi o dei fiati “assistendo” alla sua emozione, nella consapevolezza che in tale “riverbero” reciproco, apparentemente insignificante perché impalpabile, in realtà “passano le anime”.

3) Il dono di pensieri. “Per sintonizzarci con altri mondi e altre esperienze dobbiamo esercitare l’immaginazione”[70]. Esercitare l’immaginazione, in tutte le forme in cui ci è dato svilupparla nell’esperienza quotidiana (dalla fantasticheria, al sogno, al progetto, alla pratica di un’arte rappresentativa[71]), è un buon allenamento all’empatia.

Nella dialettica del movimento empatico, l’immaginazione occupa un posto centrale, in quanto è il fulcro della “trasposizione di esperienza”. “L’immaginazione è il cuore dell’empatia e l’intelligenza di ogni forma di compassione, di partecipazione al destino altrui”[72].

Essa consente di andare oltre l’”apprensione analogizzante”, creando lo spazio per l’accoglienza in sé di una “qualità diversa di esperienza”. E’ quel “pensiero allargato” o “gratuito” (“il dono di pensieri”) che “libera lo spazio del puro possibile”[73].

Intercetta la “possibilità di un darsi diversamente della realtà” insita in qualsiasi percezione e rappresentazione, eleva ed affina lo sguardo dell’anima, introduce la possibilità di uno scarto rispetto al reale, opera un passaggio di piano rispetto al già dato e al già conosciuto.

Nel movimento empatico questo passaggio di piano è cruciale in un duplice senso: come trasferimento verso l’”altro” e verso l’”oltre”.

Nell’attualità del rapporto intersoggettivo, dopo aver “appercepito” per analogia quanto dell’altro è riconducibile al mio modo di essere, posso accedere alle zone inesplorate e sfuggenti del suo paesaggio interiore, agli aspetti inconoscibili di lui solo “immaginandoli”. L’immaginazione, in quanto propensione a “comprendere, vedere, sentire, pensare oltre e di più rispetto al cerchio dell’esperienza soggettiva”[74], rappresenta la possibilità di aderire ad una logica diversa dalla propria. E’ la vera chiave d’accesso all’alterità.

Inoltre essa è per sua natura proiettata verso il futuro. In quanto pensiero del puro possibile, riesce ad anticipare il senso e il valore dei vissuti dell’altro, anche a costo di una “rottura di piani rispetto al decorso che un’esperienza può avere nel contesto delle regole del nostro ambiente o conformi alla nostra cultura, ai nostri valori”[75] ed anche laddove le apparenze, i dati fenomenici, chiudono l’orizzonte, sembrano negare la possibilità stessa di sviluppi.

Per questo motivo, “l’immaginazione è una risorsa fondamentale nel passaggio dal “sentire l’altro” all’assumersi una responsabilità per il suo destino”[76].

L’immaginazione è passione per il destino dell’altro, fiducia nel futuro, in quanto scommette sulle “potenzialità invisibili” di una persona, di una relazione, di una situazione. “Il dono all’altro, se c’è, è fatto perché è lui, perché è lei, passione e fiducia subentrano alla conoscenza, reciprocità e similitudine sono sostituite dall’anticipazione che si espone al futuro, che ama ciò che potrà essere. Anticipazione è essere vivamente interessati a ciò che l’altro potrà fare”[77].

La relazione di Counseling, per il tramite dell’empatia sostanziata di attenzione e alimentata dall’immaginazione, si prefigge lo scopo specifico di aiutare l’altro a “diventare ciò che veramente è”, a realizzare l’intera gamma delle sue potenzialità, a coltivare le risorse sopite ed occultate per farle fruttificare.

L’immaginazione ci permette il lusso di “sperare contro ogni speranza”: immette nell’empatia l’afflato e l’empito della speranza.

4) Respirare l’altro. L’immaginazione come capacità di “vedere l’invisibile”, evoca immediatamente l’attenzione, che è “dedizione” all’invisibile, rimozione di tutte le interferenze (in primis l’”ingombro” dell’io) che possono impedire o falsare l’esatta percezione del contenuto della personalità e dei vissuti altrui.

Tutti gli autori che esplorano il fenomeno dell’empatia (cfr. Rogers e Stein) insistono sull’attenzione come “auto-sopensione” dell’io, suo temporaneo farsi da parte o accantonarsi per concentrarsi totalmente sul vissuto dell’altro, attingerne la pienezza di senso, che consta di pensieri, emozioni, espressioni, valori, che si offrono solo ad un ascolto puro, disinteressato.

L’ascolto puro scaturisce eminentemente dal silenzio: può assumere la veste di “ascolto analitico” (inframmezzato e valorizzato da minimi interventi attivi quali le “riformulazioni”) o di “silenzio risonante”; è paragonabile all’accompagnamento musicale, disegno basato su accordi che funge da sostegno armonico e ritmico della melodia. Spesso si tratta solo di far risaltare la voce dell’altro, fare suonare i timbri che non sa di possedere, oppure di intervenire più incisivamente per produrre una nuova musica “a quatto mani”, una melodia in cui ciascuna voce o strumento “è anche il respiro, la voce, il ritmo, le pause, la melodia dell’altro”[78].

L’ascolto attivo in senso tecnico viene descritto come la capacità di saper ascoltare con un elevato grado di attenzione e partecipazione comunicativa. In senso poetico, ci piace descriverlo come un gioco di reciproca “modulazione”: una modulazione sull’altro contestuale alla rimodulazione di sé. Interpretato in tal senso, evoca il “tatto”, quel senso della misura che è anche “grazia, garbo, tocco pittorico e musicale”[79]: approccio all’altro improntato alla delicatezza e alla discrezione.

A conclusione di questo viaggio attorno ai significati espliciti ed impliciti dell’empatia, l’ascolto sensibile dell’altro, finemente sintonizzato sui suoi vissuti, auspicato da Rogers, altro non ci sembra che la capacità di “accogliere e raccogliere” il respiro dell’altro, fare da cassa di risonanza ai suoi pensieri, sentimenti, obiettivi, sogni, per favorire la massima espansione del suo “modo di essere”.

Nell’attenzione fatta di sospensione, attesa, silenzio, ascolto, tensione ad intercettare l’invisibile, sensibilità ai segnali corporei, emotivi, spirituali, l’empatia si configura come capacità di “sostare nell’altro”, indugiare nel suo riverbero.

Bibliografia

BOELLA L., Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006

STEIN E., Il problema dell’empatia, Studium, Roma 2014

GOLEMAN D., Intelligenza emotiva, BUR Rizzoli, Milano 2015

Articolo pubblicato sul n° 15 della rivista Passaggio in volo, quaderno di approfondimento dell’Associazione Punto Gestalt “PEGASUS”, Supernova, Mestre Gennaio-Giugno 2018.

  1. BOELLA L., Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p. 14.
  2. Ivi, p. 11.
  3. Ivi, p. 12.
  4. Ibidem.
  5. “Io “so” del dolore, della gioia, delle ansie dell’altro, dell’altra e ciò non significa l’acquisizione di chissà quale sapere sulle sue condizioni, il suo stato d’animo, la sua storia, bensì che riconosco e accolgo nella sua interezza la persona dell’altro, dell’altra. Questa è l’empatia.”, Ivi, p. 25.
  6. Ivi, p. 64.
  7. Ivi, pp. 21.22.
  8. Ivi, p. 24.
  9. Ivi, pp. 24-25.
  10. Ivi, p. 34.
  11. Ivi, pp. 33-34.
  12. Ivi, p. 36.
  13. Ivi, p. 39.
  14. Ivi, p. 38.
  15. La nozione husserliana di Paarung presenta punti di contatto con la teoria dei “neuroni specchio”, considerati una delle scoperte più innovative della neurobiologia, elaborata in Italia dal gruppo di ricercatori dell’università di Parma guidati dal prof. G. Rizzolati. Secondo tale teoria siamo “geneticamente predisposti” all’empatia, in quanto possediamo dei circuiti neuronali preposti all’imitare, predisposti ad intercettare le emozioni altrui e a strutturare risposte speculari. La proprietà del neurone specchio è quella di attivarsi allo stesso modo quando compiamo una determinata azione e quando vediamo compierla. Tale complesso di studi ambisce a fornire una base biologica all’empatia. La fenomenologia husserliana contiene in nuce intuizioni che possono essere considerate precorritrici di tale impostazione.
  16. Ivi, pp. 37-38.
  17. Ivi, p. 32.
  18. Ivi, p. 40.
  19. Ivi, p. 41.
  20. Ivi, p. 42.
  21. “Si tratta di una posizione che giustamente afferma l’assolutezza dell’esistenza dell’altro, ma finisce per negare qualsiasi reciprocità e qualsiasi desiderio di scambiarsi sguardi ed emozioni tra gli esseri umani”, Ivi pp. 42-43.
  22. Ivi, p. 45.
  23. “L’empatia mi mette di fronte al vissuto psichico altrui in una forma invero paradossale. Sto vivendo infatti un’esperienza emotiva – l’empatia non è un atto conoscitivo o rappresentativo, bensì, ricordiamolo, un sentire – sto attivando una possibilità percettiva di me stessa come soggetto sensibile… con il corpo che agisce come base di risonanza”, ivi, pp. 43-44.
  24. Ivi, p. 45.
  25. Ivi, p. 44.
  26. Ivi, p. 50.
  27. “Cogliere un’espressione rappresenta la soglia del comprendere l’altro”, Ivi p. 53.
  28. Ivi, pp. 49-50.
  29. Cfr. la concezione della filosofia come ricerca critica e ambito di indagine inter-soggettiva infinita, tipica della fenomenologia.
  30. Ivi, p. 55.
  31. Ivi, pp. 55-56.
  32. Ivi, p. 56.
  33. “L’emozione dell’incontro provoca uno slancio verso l’altro, composto da una mescolanza di invasione e di abbandono e, quasi per contraccolpo, un bisogno di ricostruire la propria identità, che va insieme, ancor una volta, alla tendenza a penetrare nel mondo dell’altro. Anche nel secondo momento dell’empatia, si ripropone, in un diverso dosaggio, la compresenza della spinta dell’io verso ciò che sta fuori e di quella contraria, verso di sé. Nell’empatia, la posizione dell’io e dell’altro non è mai fissa, domina piuttosto un movimento verso il dentro e verso il fuori, di avvicinamento e di allontanamento. Non dimentichiamo che questo movimento è la relazione”, Ivi, p. 58.
  34. Ivi, pp. 58-59.
  35. Ivi, p. 57.
  36. Mentre la compassione è reazione immediata basata sull’immedesimazione e quindi si traduce in coinvolgimento impulsivo nella vicenda dell’altro, che può assumere anche il carattere dell’estemporaneità e dell’inconcludenza, l’immaginazione, grazie al suo carattere riflessivo, consente di prendere distanza dall’impazienza e quindi di attivare una ricerca della risposta più congruente ed efficace. “Nella simpatia e nella compassione la relazione con l’altro diventa quasi naturalmente altruismo, aiuto, solidarietà. In verità, l’empatia vuole essere l’atto che dà un ordine, una guida, un senso d’esperienza a ciò che avviene tra me e l’altro nel momento in cui mi rendo conto del suo dolore, della sua gioia, del suo sdegno. Per questo motivo, non può mirare impazientemente all’esperienza diretta, attuale, che restringerebbe l’orizzonte del sentire l’altro ai suoi effetti, alle sue conseguenze e alla condivisione (che può essere anche momentanea) di uno specifico stato d’animo o situazione esistenziale. All’empatia spetta piuttosto spiegare la possibilità del rivivere, dell’accompagnare, del lasciarsi guidare dal dolore dell’altro nel senso molto più impegnativo dell’integrare l’esperienza dell’altro nella propria esperienza”, Ivi, p. 60.
  37. “Sbagliato sarebbe pensare che l’immaginazione ci porti a riprodurre interiormente fino a “sentire”, a percepire vivamente dentro di noi il dolore o la gioia dell’altro. Ciò vorrebbe dire trasformare l’altro in u fantasma inesistente, o in un sosia. Necessario è invece fare i conti con la presenza reale dell’altro, con il suo esistere, in carne e ossa. Il suo corpo vivo chiama costantemente alla verifica e al controllo del “mettersi al posto dell’altro” con i dati della percezione sensibile, di ciò che si mostra alla vista, all’udito e al tatto. Allo stesso modo, la sua personalità non accetta di essere scambiata con quella di un altro…”, Ivi, p. 63.
  38. Ivi, pp. 64-65.
  39. “Da quel momento, ricordiamolo, l’io e l’altro hanno iniziato a scambiarsi le parti, ad allontanarsi e avvicinarsi, non sono più rimasti al loro posto. La relazione non è un mezzo per unire le rive opposte di un fiume. La relazione è il ponte che permette di transitare dall’una all’altra. E i due soggetti che si sono incontrati adesso non abitano più ciascuno sulla propria riva. Si muovono avanti e indietro sul ponte”, Ivi, p. 66.
  40. Ivi, p. 65.
  41. Ibidem.
  42. Ivi, pp. 67-68.
  43. “L’io, muovendosi con una libertà che assomiglia a quella della fantasia, svincolata dall’obbligo della conferma del reale, scopre che c’è altro e diventa capace di ospitarlo, di accoglierlo… Sperimentare se stessi nel vissuto altrui vuol dire fare entrare l’altro nel proprio paesaggio interiore… Il paesaggio interiore ha acquisito prospettiva e profondità grazie alla relazione, allo spostamento da sè verso l’altro, all’esperienza vivente di qualcosa che non è proprio”, Ivi, p. 68.
  44. Ivi, pp. 68-69.
  45. Ivi, p. 72.
  46. ivi, p. 74.
  47. Cfr. GOLEMAN D., Intelligenza emotiva, BUR Rizzoli, Milano 2015.
  48. BOELLA L., Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, op. cit., pp. 73 – 74.
  49. Cfr.“Solo colui che sente di essere in se stesso una persona, un tutto pieno di significato, può capire gli altri”, in STEIN E., Il problema dell’empatia,Studium. Roma 2014, p. 227.
  50. BOELLA L., Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, op. cit., p. 92.
  51. Ivi, pp. 90-91.
  52. “L’empatia rivela che in ognuno di noi c’è una profondità che accoglie o respinge, che accetta o rifiuta di sperimentarsi oltre l’orizzonte che gli è proprio”, Ivi p. 74.
  53. “Nell’esercitare l’empatia, l’intreccio profondo tra noi e gli altri si sgrana, non si propone come dato di fatto scontato o assunto retoricamente, bensì come il lavoro che attraversa il margine più o meno grande di separazione, di differenza, di disparità di destino, di mancanza di scambio che sussiste tra gli esseri umani”, Ivi, p. 92.
  54. Ivi, p. 93.
  55. Cos’altro è se non questo il senso del comandamento cristiano:“Ama il prossimo tuo come te stesso”?
  56. Ivi, p. 76.
  57. Ivi, p. 77.
  58. Cfr. l’importanza attribuita da Edith Stein all’empatia quale mezzo di autoconoscenza ed autovalutazione in STEIN E., Il problema dell’empatia, op. cit., pp. 227 e 228.
  59. “I capovolgimenti creativi, i processi dolorosi, ma salutari subentrano imprevisti e inattesi, e non solo ce li immaginiamo, ma spesso li viviamo nelle sembianze di qualcuno fuori di noi che ci rianima, ci dà nuova forza o nuova vita”, BOELLA L., Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, op. cit., p. 75.
  60. “Il peso maggiore dell’oscurità rispetto a noi stessi non riguarda tanto un’irraggiungibile luce nella nostra interiorità, quanto piuttosto l’immensità delle voci non ascoltate, delle esperienze cui non si è dato risposta, degli stili di vita, degli esempi da cui non abbiamo tratto ispirazione”, Ivi, p. 76.
  61. Ivi, p. 78.
  62. Ivi, pp. 81-82.
  63. Ivi, p. 82.
  64. Ibidem.
  65. Ivi, p. 83.
  66. Ivi, p. 84.
  67. Ivi, p. 93. Cfr. “Praticare l’empatia vuol dire ricominciare sempre di nuovo. Si tratta di un costante esercizio, che si muove attraverso errori, tentativi e correzioni di rotta, finalizzato allo sviluppo di una competenza nell’entrare in relazione, senza invadere lo spazio vitale dell’altro e senza lasciarsi schiacciare dalle sue esigenze”, Ibidem.
  68. Ivi, p. 96.
  69. Ivi, p. 97.
  70. Ivi, p. 100.
  71. L’immaginazione “nell’adulto spesso è come se si spegnesse, a volte soffocata dagli imperativi della vita reale. Ma è sempre possibile riattivarla, per esempio, attraverso la frequentazione dei testi poetico-letterari. Essi rappresentano infatti una delle vie per approfondire la sensibilità per l’altro e, in particolare, per uscire dai canoni convenzionali dell’interpretazione dei comportamenti. Le storie narrate rendono plausibili le trame emotive degli avvenimenti, danno ragione dell’imprevedibilità dei caratteri e delle azioni umane, invitano a seguire le logiche del cuore e non quelle dell’interesse economico o della legge impersonale”, Ibidem.
  72. Ivi, p. 104
  73. Ivi, p. 100.
  74. Ivi, p. 104.
  75. Ivi, p. 102.
  76. Ibidem.
  77. Ivi, p. 106.
  78. Ivi, p. 105.
  79. Ibidem.
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